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RENATO Martorano hai ragione. Come ti si può chiedere di pentirti? Non è una cosa automatica. Si tratta di riconoscere i propri sbagli, di rinnegare quello che si è stati fino a poco tempo prima, di prendere la distanze con la vita che fu. Si tratta di riconoscere dinanzi a se stessi e poi di dire agli altri che la persona di ieri, quella che si è macchiata di una serie innumerevole di crimini, non esiste più, è scomparsa, ha finito di essere, e quella che c’è oggi è totalmente altro.
Invece tu oggi forse sei ancora quella persona, forse nulla è cambiato dentro di te, o forse stai facendo un cammino; chi può saperlo?
Ma di sicuro non è questo quello che ti hanno chiesto i magistrati potentini. Loro, come chiunque di noi, sanno bene che il pentimento è un cammino complesso, tortuoso, lungo, e i suoi tempi fanno parte del mistero che c’è in ogni uomo. Anche nei mafiosi.
No. Loro ti hanno, forse, semplicemente chiesto la cosa più ragionevole di questo mondo, per uno che vive nelle tue condizioni: di collaborare. Di dire tutto quello che sai sugli ultimi trent’anni della vita criminale di questa regione, di svelare i segreti di quegli omicidi e di gettare luce su certi legami criminali. In poche parole ti hanno chiesto di arrenderti dinanzi all’evidenza di una vita che ormai non ti appartiene più, di prendere coscienza una volta per tutte che se non sei mai stato nessuno prima (anche se tu pensavi il contrario) figuriamoci se oggi puoi contare qualcosa; ti hanno chiesto di accettare l’evidenza di una sconfitta totale del tuo mondo, di quelle logiche, di quelle regole. E di chiederti infine: che vita è stata la tua e che vita mai potrebbe essere quella che ti aspetta?
Ecco perché io, noi, non ti chiediamo semplicemente di collaborare ma di pentirti nel vero senso della parola. Di inginocchiarti dinanzi ai tanti ai quali hai fatto versare fiumi di lacrime e di chiedere perdono.
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