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NEI giorni scorsi è uscita su “Il Mattino” di Napoli questa lettera di Andrea Di Consoli. Una lettera accorata a cui non è rimasto insensibile neanche il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, che ha assicurato la sua attenzione su questo caso. La ripubblichiamo, con la speranza che anche dalla Lucania possa venire un indizio sulla ricerca della verità sulla morte a Napoli, nel 1953, di Maria Attadia, madre di un suo amico rotondese italo-brasiliano, Antonio Libonati
Caro direttore,
nella contrada Fratta, a Rotonda, in provincia di Potenza, dove ora è ritornato da qualche anno, Antonio Libonati, classe 1947, è per tutti “il brasiliano”; mentre a San Paolo del Brasile, dove ha vissuto per oltre quarant’anni, tutti lo hanno sempre chiamato “l’italiano”. Ma il buco nero della sua storia di uomo e di eterno migrante è a Napoli, dalle parti del Porto.
Antonio mi sta davanti in lacrime, qui nella mia casa di Fratta, e m’implora di aiutarlo, perché a questo punto della vita gli risulta insostenibile non sapere dove poter piangere le ossa di sua madre.
Sapranno i napoletani aiutare questo mite e sperduto lucano-brasiliano che non potrebbe mai, a bordo del suo rumoroso motocarro verde e con i pochi soldi che ha in tasca, venire a Napoli in cerca della madre perduta? Spero, con l’aiuto del giornale che dirigi, di portare un po’ di luce nel buio di questa piccola storia famigliare del Sud.
I fatti, all’epoca, andarono in questo modo, ma ovviamente i riferimenti sono imprecisi, perché quel che rimane di quei giorni tristi è affidato alla memoria sbiadita di un bambino di sei anni che null’altro aveva fatto, sin lì, se non pascolare le mucche.
Nel 1952 il padre di Antonio emigra in Brasile con l’obiettivo, una volta trovata una sistemazione a San Paolo, di farsi raggiungere dal resto della famiglia, composta dalla moglie Maria Attadia (nata nel 1924) e dai due fratelli di Antonio: Emma, di appena quattro mesi, e Francesco, di otto anni. Nel giugno del 1953 la famiglia Libonati al completo si dirige verso Napoli per salpare alla volta di San Paolo del Brasile. Ma purtroppo qualcosa va storto. Alla visita medica, infatti, il fratello di Antonio, Francesco, viene dichiarato, per motivi di salute, inidoneo a partire. La madre Maria non demorde, e rimane con i suoi bambini al Porto, in attesa di una soluzione che non arriva; né, ovviamente, è disposta a partire con i soli Emma e Antonio, affidando Francesco ai parenti di Rotonda.
Maria è forte e battagliera, e Antonio la descrive in salute, “rocciosa” ma disperata per il veto di non poter partire a causa della salute cagionevole di Francesco (mio padre mi dice che se la ricorda bellissima: la più bella donna di Fratta). Trascorrono alcuni giorni al Porto, nelle vicinanze della nave, ma Maria inizia a stare male, ad accusare i sintomi del crepacuore. Una notte viene ricoverata in ospedale, ma Antonio non ricorda quale, perché aveva solo sei anni. Dopo qualche giorno alcuni parenti di Rotonda si presentano al Porto e costringono Antonio, Emma e Francesco a ritornare in paese, perché la loro giovane madre è morta.
Da quel momento, la madre si conficca per sempre nel buco nero di quei giorni napoletani. Ma troppe domande rimangono tuttora in sospeso: chi avvertì i parenti della morte di Maria? E perché negli anni a venire nessuno di loro volle mai più parlare della morte di Maria e di quei giorni a Napoli, nonostante le insistenze di Antonio? Cosa accadde davvero in quei giorni a Maria Attadia? E perché la sua morte divenne un fatto da cancellare per sempre?
Di una cosa però Antonio è assolutamente certo: che alla madre non è mai stato riservato nessun rito funebre, e che mai è stata riportata nel cimitero di Rotonda. Su questo ha fatto ricerche puntuali e inoppugnabili presso il Comune. Dunque, Maria Attadia sarebbe stata seppellita a Napoli nell’estate del 1953. Sì, ma dove? In una fossa comune? E c’è qualcuno che ancora possa ricordare le procedure di seppellimento per chi moriva a Napoli in simili circostanze?
Nel 1957 Antonio emigra in Brasile con il resto della famiglia, ma la nostalgia della madre non gli ha dato tregua nemmeno per un giorno. Qualche settimana fa mi ha detto: «Ti prego, andiamo a Napoli, cerchiamo dappertutto, rivoltiamo gli uffici dell’anagrafe, sono sicuro che in una settimana la troveremo». Gli ho risposto che è come cercare un ago in un pagliaio. Ma dopo averci pensato per alcune notti, mi sono convinto che voglio provarci, perché ora che la sua dura vita è arrivata al crepuscolo, null’altro gli darebbe gioia e pace se non ritrovare le ossa della madre, morta a soli ventinove anni in un ospedale partenopeo.
Ma prima di iniziare questo viaggio alla ricerca della verità su Maria Attadia nei meandri delle sepolte burocrazie napoletane, ho la speranza che qualche anziano funzionario di porto, di ospedale o dei Carabinieri possa darmi un consiglio, indicarmi un percorso, suggerirmi una strada praticabile.
Il mio indirizzo di posta elettronica è andreadiconsoli@hotmail.com. Lo devo non solo a quest’amico dolcissimo che mi parla in un idioma italo-brasiliano ibrido e un po’ buffo, ma al bambino che Antonio fu, a quel suo ritorno amaro e atroce – e senza risposte – dal Porto di Napoli nell’estate del 1953.
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