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TRAGGO conforto, al di là delle nostre storiche divergenze politiche, dalla colta “passione e ideologia” di Vincenzo Viti. Il nostro dialogo è avvenuto a mani nude e col cuore aperto; e quando due uomini si parlano con le mani nude e il cuore aperto meritano almeno rispetto. Dopodiché, e parlo per la mia parte – ma credo di poter parlare anche a nome di Viti – non ho verità in tasca, non ho ricette da proporre, non penso nemmeno di poter e di dover aver un ruolo in questa nostra Regione.
Ma se noi si parla – ripeto, con la speranza un po’ folle di sforzare almeno un poco i limiti dell’intelligenza, attraverso la forza ctonia di sentimenti antichi e di visioni sfocate – lo si fa perché còlti da un sentimento di amore, di sperdutezza, di disagio, di passione disperata. Anche questo meriterebbe rispetto. Certo, lo so, parlare di “religione della morte”, di “ora fatale”, di comunità, di “terra dei padri”, di “annottamento”, di senso, ecc., può suscitare non poche ilarità nei progressisti illuministi, sempre convinti che conoscere i processi della decomposizione dei cadaveri significhi ipso facto svelare il mistero della morte. Ma è la stessa penosa e crudele ilarità di chi deride un uomo in cerca di Dio.
La differenza, come al solito, la fa l’interesse personale. Ci sono in Basilicata centinaia di candidati a qualcosa. Io, per quanto mi riguarda, non sono candidato a niente. Solo, nel mio piccolo, mi chiedo quale sia il senso di questa nostra terra ora che il patto sociale fondato su benessere, programmazione economica, spesa ingente di risorse pubbliche, riformismo, ecc. sta mostrando il suo storico – e, per adesso, irreversibile – logoramento. E ora che la crisi della religiosità non ha nemmeno più il lenimento del surrogato ideologico (anche dell’ideologia del benessere).
Più facile per me sarebbe dire che bisogna essere cittadini del mondo, che bisogna fare sintesi tra modernità e tradizione, e che il partire e il ritornare sono innocui ed esaltanti processi dell’umanità in movimento. E che prima o poi arriverà “la ripresa” e che con il petrolio la Basilicata risolverà tutti i suoi problemi. E che essere lucani – nell’era della globalizzazione – non ha nessun senso. Ma non dirò tutte queste cose per un semplice motivo: perché non le penso.
Al contrario, essere lucani è qualcosa di vero, qualcosa che ha senso storicamente e antropologicamente – e dunque spiritualmente. Sto cercando un “fattore x” che possa schiudere un barlume di verità e di luce buona su di noi, o forse solo su di me, perché vedo che gli altri si accontentano di candidarsi a qualcosa, con il misero programma di “rinnovare” la classe dirigente e di far valere la meritocrazia (ma la storia ci insegna che quando non ci sono idee o sentimenti profondi in circolazione, l’unico scontro possibile è quello sugli organigrammi e sulla spartizione delle poltrone). Ci si accontenta di poco, noto. E lo dice – e di questo vado orgoglioso – il principale oppositore degli ultimi anni del “sistema Basilicata”. Aggiungo, per amor di verità, che Viti ha seguito i miei ragionamenti solo per intima e profonda gentilezza, essendo egli un laico riformista giustamente diffidente con l’irrompere della metafisica sulla scena della prassi politica. Ma ho molto apprezzato questa sua fraterna generosità, questo suo umile voler capire in che direzione andavano e vanno questi miei sentimenti sotterranei, figli di un sottosuolo psichico collettivo nel quale mi sento sempre più immerso. Si dirà: la politica è altro. Faccio tanti auguri a chi la pensa così. Viti, intelligente com’è, ha invece capito che tutto ormai dipende da quel “fattore x”. Sempre che sia vero che anche da noi cresce l’astensione, l’odio per la politica, l’odio di classe per chi fa politica, la liquidazione del linguaggio politico a chiacchiera approfittatrice (proprio perché abbiamo smarrito la lingua). Sempre che, dunque, ci sia un problema diffuso. Che certamente non si risolverà con un Memorandum o con qualche altra pioggia statalista, oppure gridando mantra vuoti come “innovazione” e “globalizzazione”, assolutamente ineffettuali in un contesto nel quale ci si domanda sempre piu’ smarriti quale sia il senso di una terra e il senso di una socialità rimasta orfana di due grandi civiltà naufragate: quella contadina e quella operaia e poi piccolo-borghese.
Sarò anche un oscurantista, ma se non si andrà a fondo in questa nuova “crisi della presenza”, democrazia, società aperta e riformismo saranno sempre più deboli e a rischio. Ma a questo punto – vista l’ottusa crudeltà dei progressisti illuministi – non so nemmeno se sia un male. Tutto mi sembra meglio di questa sommatoria di vane ambizioni personali, di questo autismo corale, di questa Basilicata diventata discarica della modernità, di tutti questi scienziati che hanno imparato a studiare per mettersi sopra gli altri, per fottere il prossimo. C’era più verità quando c’era meno sapere, quando si firmava con “la ics”, francamente. Infatti cosa ce ne facciamo di tutta questa colta e sapiente tracotanza che esulta per aver trovato la formula matematica dell’assenza di Dio? E cosa ce ne facciamo dei tanti, troppi, che pensano che la politica non debba parlare e occuparsi di queste cose?
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