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LEGGO molta passione, inquietudine critica e intelligenza negli interventi su Matera di Roberto Moliterni, Vincenzo Viti, Giorgio Santoriello, Nicola Buccico, Raffaele De Ruggeri, Antonello Grassi.Come sempre accade nei dibattiti, un po’ mi sono convinto di dover modificare alcuni miei punti di vista, e un po’ mi sono persuaso di non riuscire, per l’ennesima volta, a esprimere con le parole – le misere e manchevoli parole umane – il mio sentimento su questa città che mai finisce d’interrogarmi e di ammaliarmi.
C’è un punto però che vorrei provare a focalizzare meglio, e me ne offre l’occasione il giovane Moliterni, il quale sostiene, in sintesi, che il popolo ancora c’è, solo che dai Sassi si è spostato nei rioni periferici. Dunque, l’accusa implicita che Moliterni mi muove è sottile e insidiosa: tu non ami il popolo!
Caro Roberto, tu e tutti gli amici che siete intervenuti a questo dibattito non avete tenuto conto – e tu avresti dovuto farlo, per come mi conosci – della mia viscerale attrazione per il pauperismo religioso, ovvero per quell’utopia, forse solo immaginaria e dunque letteraria, che lega miseria a bellezza, umiltà a saggezza, senso della morte a fraternità.
Perché è così difficile vedere in me una simile prospettiva religiosa?
Lo ammetto: sono un conservatore, un tradizionalista, un nostalgico, non già del tempo passato – che, in quanto passato, è irripetibile – ma di un preciso sentimento del mondo che secondo me può sopravvivere indenne anche attraversando le forme della modernità e della post-modernità.
Sono un anti-modernista (e per modernità non intendo la sola tecnica, come tanti fanno), e credo che i mali attuali della Basilicata vengano da un’invocazione sterile e ineffettuale, manierista e retorica, di una salvifica modernità, ovviamente declinata con il solito vocabolario striminzito fatto di parole quali sviluppo, crescita, investimenti, ecc. Io, invece, di un popolo e di una città cerco l’anima profonda, e mi pare che in questa ricerca sia totalmente scomparso il senso religioso, fosse anche soltanto declinato in senso antropologico. Quando i politici sprovveduti affermano che bisogna “superare il levismo”, in quel momento compiono un crimine contro la storia e contro la Grande Anima Collettiva lucana, perché tutta la civiltà fraterna e comunitaria lucana nasceva da questa estrema confidenza con la morte.
Superare il levismo invece cosa comporta? Irrealtà, illusioni, superficialità, tracotanza, spappolamento identitario, subalternità verso immaginari presi un po’ qua e un po’ là.
Qualcuno vorrebbe farci credere che siamo cittadini del mondo, ma è un’esortazione pericolosa, perchè un uomo è un uomo compiuto solo se ha una terra, una lingua, una storia da cui trarre forza e forma, e in cui, accolto, morire sapendo di essere l’anello di una grande catena.
Lo testimoniano le migliaia di lucani e di lucane emigrati che si portano dietro un vocabolario e un immaginario antico, suggestivo, tormentato, ma carico di tensioni morali. Il benessere non definisce un popolo; o, per lo meno, non definisce un popolo così antico e con una così antica dimestichezza con la morte, con la morale e, fosse pure, con l’oscuro culto dell’assenza di Dio. Quando Dio muore – come a Gerusalemme – rimane solo il turismo di Dio, che può anche andar bene, ma che è altra cosa rispetto a un luogo che vive pienamente la propria vocazione geografica e identitaria. A Matera la storia non si fa: la si interpreta, la si illustra, la si vende a turisti che rendono felici gli statistici dell’Apt e a registi in cerca di location esotiche.
Ho lamentato e lamento la perdita dell’umiltà, della religiosità, di una civiltà fondata sulla morte, e dunque su una feroce e misericordiosa fraternità. Dov’è questa civiltà superstite? Nei pub, nelle palestre, nelle presentazioni di libri un po’ improvvisati, nelle macellerie, nel traffico di via Lucana, in una piccola-borghesia che vive di danaro pubblico stanco, coatto, improduttivo? Si è pensato di fondare il patto sociale sul solo benessere, e ora che il benessere non c’è più raccogliamo infinite macerie: invidia, rancore, ambizioni smisurate, individualismo, cattiveria, velleitarismo, disprezzo per la storia.
Non ho ricette, ma solo sogni, forse incubi.
Ma non posso fare a meno di vedere la sapiente costruzione di Sassi come un profondo atto popolare devozionale di natura religiosa.
Oppure, caro Roberto, le palazzine di viale Italia – dove oggi si sarebbe trasferito quel popolo ormai disperso e morto – un giorno saranno ammirate come oggi si ammirano i Sassi? Ripeto, ho poche convinzioni e, quelle poche che ho, sono confuse, ma sento di dover ancora guardare a Matera con l’occhio sinistro, quello dei sogni e delle visioni. Forse il mio amore per Matera e per la Lucania è solo un sogno della storia? Oppure sono solo il frutto di quel che i morti continuano a sognare? O sono l’incarnazione di una ctonia e irredenta umiliazione e recriminazione? Ma davvero è possibile sentire la storia senza farsene travolgere? Magari fino a risultarne ridicoli, condannati a una dolorosa solitudine? Dopodiché vi ringrazio, perché parlando ancora di Matera in questi termini, dimostrate di essere appieno una “forza del passato”.
Altro non so dire, perché m’impunto sempre con l’inesprimibile. E lì, sempre, rimango barcollante e confuso.
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