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POTENZA – I fumi immessi in atmosfera, le condizioni di lavoro degli operai e i veleni che negli anni sono ricaduti dall’atmosfera nei terreni circostanti. In particolare le diossine. Come all’Ilva di Taranto. Stesse analisi e stessi periti per provare a capire se a Potenza, per quanto in piccolo, sia accaduto qualcosa del genere.
Hanno fatto irruzione e sono al lavoro già da qualche giorno all’interno dei cancelli dello stabilimento della Siderpotenza i militari del Noe dei carabinieri e gli esperti incaricati dalla procura della Repubblica di Potenza. Il pm Sergio Marotta ha infatti aperto un fascicolo per accertare se nell’impianto del Gruppo Pittini siano stati commessi reati ambientali come quelli che da tempo denunciano cittadini e associazioni.
A destare particolare preoccupazione, almeno dallo sviluppo del quartiere di Bucaletto per gli sfollati del sisma del 1980, c’è innanzitutto la vicinanza delle ciminiere con le abitazioni. Ma continuano a ripetersi anche segnalazioni di fuoriuscite di fumo nero, e annesse lamentele di disturbi agli occhi e agli apparati respiratori. In tanti da tempo chiedono la delocalizzazione del sito oppure un costante monitoraggio da parte di tutti i soggetti coinvolti: Asi (all’epoca proprietaria di una parte dei terreni), Regione Basilicata e Provincia. Intanto la proprietà è passata nei primi anni 2000 dalla società Lucchini a Pittini-Ferriere Nord. E l’ultima manifestazione organizzata per protestare contro tutto ciò risale solo a un mese fa, quando il comitato “Aria pulita” ha invitato davanti all’impianto il sindaco Vito Santarsiero, il direttore dell’Arpab e i carabinieri del Noe, di stanza a poche centinaia di metri sull’altra sponda del Basento. Cosa che non dev’essere passata inosservata, visto gli sviluppi di questi giorni. Resta da vedere cosa ne verrà fuori.
Al lavoro ci sono tre consulenti resi celebri per quanto documentato indagando sull’inquinamento provocato dalla fabbrica dei Riva nella “città dei due mari”. Si tratta del chimico industriale Mauro Sanna, del funzionario dell’Arpa Lazio Rino Felici, e del chimico Roberto Monguzzi. I primi due di Roma e il terzo di Milano. Incaricati dal gip Patrizia Todisco di effettuare una perizia chimica a settembre del 2011, nel giro di qualche mese avevano dimostrato la dispersione in atmosfera da parte dell’acciaieria di sostanze pericolose (diossine, Ipa, benzo(a)pirene, polveri di minerali) sia per la salute dei lavoratori sia per la popolazione di Taranto e dei centri vicini. Dai loro test erano emersi livelli di diossina e Pcb nei tessuti e negli organi degli ovicaprini abbattuti nel 2008 (come disposto da Asl e Regione Puglia) e nei terreni e nei pascoli attorno allo stabilimento. In più scarse misure di sicurezza, «emissioni non convogliate» provenienti «dai diversi impianti dello stabilimento» e una «quantità rilevante di polveri rilasciata dagli impianti, anche dopo gli interventi di adeguamento». Tutti elementi raccolti in contraddittorio con i legali dell’imprese, dal momento che si trattava di prove irripetibili. Quindi trasfusi dal gip nel provvedimento con cui cinque mesi dopo avrebbe disposto il sequestro preventivo, senza facoltà d’uso, dell’area a caldo dell’Ilva e gli arresti domiciliari per 8 tra proprietari e dirigenti del siderurgico. Per quanto all’epoca delle analisi i valori di emissione delle sostanze velenose prese di mira fossero nei limiti di legge.
Per farla breve, la procura di Potenza fa pieno affidamento sulla loro competenza. Anche se nel capoluogo lucano la situazione è per molti aspetti diversa a quella attorno all’acciaieria tarantina, persino difficile da paragonare se si fanno le dovute proporzioni. Meno di 300 i lavoratori potentini, contro i 15mila e passa pugliesi, solo per restare alla forza lavoro. Nei prossimi mesi gli inquirenti avranno comunque a disposizione una perizia di parte sui livelli di contaminazione delle principali matrici ambientali dell’area su cui poter valutare in serenità il da farsi. Intanto il gruppo Pittini starebbe già lavorando alle contromosse.
L’inchiesta della magistratura arriva dopo un primo companello d’allarme suonato a gennaio quando l’Arpab ha reso noti i dati del rapporto di prova del 4 ottobre del 2012 sul camino E2 dell’impianto della Sider Potenza. Su tre diversi campionamenti di un’ora ciascuno sono stati registrati tre sforamenti della soglia di monossido di carbonio immesso nell’atmosfera con un valore medio superiore del 49% a quello prescritto nell’autorizzazione dell’impianto. Così è partita la comunicazione di rito con l’avvertenza che al terzo sgarro la legge prevede la chiusura dell’impianto. Già alla fine degli anni ‘80 la Siderpotenza era stata al centro di un’inchiesta della magistratura che ha portato anche al sequestro, poi annullato, dell’impianto.
l.amato@luedi.it
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