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NON so se alla fine i materani sono stati contenti di come è andata. Troppo difficile per un napoletano come me, da appena due mesi a Matera, capire tutte le sfumature di una festa che qui si celebra da tempo immemore e che ancora registra una partecipazione tanto intensa e corale. Dovunque andassi, di qualsiasi estrazione fossero le persone con cui, in queste settimane, ho avuto a che fare, non ne ho trovato una che non mi parlasse della festa. Per dirne magari, per troppo amore, male; per lamentarsi del fatto che la cerimonia della Bruna non è più quella di una volta. Come fa Antonio Bianco, materano da infinite generazioni. Il quale recrimina: «Troppi controlli. Imporre una presenza così massiccia della polizia vuol dire espropriare i materani di qualcosa che è sempre appartenuto loro, sotto qualsiasi dominio o regime». Ha ragione? Mark Barney, un antropologo canadese la cui nonna è nata ai Sassi (e che è a Matera per condurre ricerche genealogiche), sostiene di sì. «Attraverso la cerimonia della Bruna  il materano, una volta l’anno, diventa protagonista del suo destino– spiega, seduto al tavolo dell’Osteria Malatesta -. E qualunque interpretazione si voglia dare del momento clou della processione, quello in cui si dà liberamente l’assalto al carro, è chiaro che volerne regolamentare i tempi e  gli spazi è qualcosa che va contro la natura stessa della festa». E poi, quella del 2 luglio non è mai stata una festa violenta. «Nel momento di maggior pathos della processione saltano le leggi che regolano la comunità e ne subentrano altre. Ma anche la trasgressione ha le sue norme non scritte. E l’apparente anarchia che si dispiega nel corso dello sfascio (che una volta doveva svolgersi in stato di trance) è in realtà accompagnata da una violenza trattenuta, in cui gli attori conoscono le regole del gioco e sanno, come in una competizione sportiva, che alcuni colpi sono ammessi e altri no; sottrarre loro il controllo, che si basa sull’autocontrollo, è un errore». 

Andrea Semplici, una vita da giornalista (ha guidato la redazione fiorentina di Paese Sera  prima che il giornale diretto da Arrigo Benedetti chiudesse i battenti) e, ormai da anni, fotoreporter di frontiera, mi racconta di aver assistito a molte feste della Bruna. «Di cerimonie così non ce ne sono più. Né in Toscana (che pure vantava una ricca e preziosa tradizione di feste popolari), né nel resto d’Italia. Stamattina (lunedì, ndr) ho assistito a qualcosa di incredibile, che dà il senso dell’unicità di questo appuntamento, di quanto sia ancora sentito dalla comunità. Ho visto ragazzi   inscenare una protesta perché, dicevano, li volevano espropriare della festa. Tenevano su un  cartello che diceva “Ridateci la festa della Bruna”. Vi rendete conto? I ragazzi che si mobilitano per salvare un’antica tradizione che sentono fino in fondo loro. Un miracolo».

Esagerato? Forse. Anche perché, qualsiasi cosa se ne dica, la festa non è, forse non potrà più essere, quella di una volta. E’ fatale (e, per qualcuno, perfino un bene), che essa finisca per diventare, come è avvenuto nel resto d’Italia, un evento turistico e che, in quanto tale, non apparterrà più soltanto ai materani. Il suo destino appare legato, in modo contraddittorio, allo sviluppo stesso della città. E la sua trasformazione, in un senso che non piacerà a molti materani, sarà uno dei prezzi da pagare in cambio di una modernità a lungo invocata.

a.grassi@luedi.it

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