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POTENZA – L’interrogativo è vecchio quanto il mondo, almeno quanto la storia del petrolio in Basilicata. Perché non siamo la Norvegia? Perché l’oro nero lucano non è riuscito a innescare un processo di sviluppo e di benessere diffuso? La riflessione, dicevamo, non è affatto nuova. Ma ci sono almeno due motivi validi per tornare a parlare di quello che la ricchezza del nostro sottosuolo – il giacimento su terra ferma più grande d’Europa – potrebbe rappresentare per la Regione. 

Da una parte la trattativa quasi chiusa con Eni portata avanti dai comuni della Val d’Agri – in testa l’amministrazione di Viggiano – che costituisce un altro modo di pensare ai vantaggi che le popolazioni locali possono trarre dalla convivenza con il petrolio. Materia prima, 45.000 metri cubi di gas al giorno, che si aggiungerà alle royalty. Con effetti diretti sulla qualità della vita dei residenti. Ci sono voluti 15 anni di estrazioni per arrivare a questo risultato: riduzione delle spesa energetica a vantaggio di privati, pubbliche amministrazioni e imprese. Con cui  attrarre nuovi investimenti nell’area della Val d’Agri in modo da stimolare l’economia locale. Una maniera diversa di pensare alle compensazioni che porta la firma delle singole amministrazioni comunali. 

L’altro motivo per tornare a porre la questione è rappresentato, invece, dalla nuova programmazione della forma più classica di indennizzo, ovvero le royalty. Parliamo di una somma che oscilla tra i 70 e i 100 milioni all’anno. Largamente impegnate nel bilancio della Regione per coprire i buchi della sanità (anche se come annunciato dall’asssessore Martorano la quota per il prossimo si sarebbe ridotta sensibilmente), nei programmi di Forestazione, e in generale per far fronte ad emergenze sociali. Dieci milioni vanno poi all’Università di Basilicata che senza questo sostegno economico potrebbe tranquillamente chiudere i battenti. «Nessun investimento, nessuna iniezione all’economia lucana»: un ritornello che periodicamente ritorna. 

La Regione Basilicata, dal canto suo, ripete che è perfettamente inutile tirare le royalty da una parte o dall’altra, perché tanto sono già impegnate. Fino al 2013. Ebbene, quella scadenza è arrivata. E, a proposito di contenuti, sarebbe bello se i protagonisti della compagna elettorale  che ci accompagnerà fino a novembre mettessero al centro  del confronto non solo la solita battaglia sui nomi ma idee buone per una nuova pianificazione delle opportunità da cogliere dalla ricchezza del sottosuolo lucano. Fino ad ora non si è sentito molto.  E allora vale la pesa andare a rispolverare i casi più significativi di chi altrove ha fatto in modo che il petrolio rappresentasse un’occasione di crescita, un motore potente in grado di generare sviluppo. Più volte si è parlato dell’esperienza norvegese.   E’ il principale produttore di petrolio dell’Europa occidentale, la nazione seconda al mondo per Pil pro capite, terzo esportatore mondiale, una sorta di Emirati Arabi dall’altra parte del Continente. Dove vengono prodotti 3 milioni di barili al giorno, molti di più dei quasi 170.000  – con la produzione di Tempa Rossa  a regime – estratti in Basicata. Ma pure facendo le dovute proporzioni, la Basilicata resta lontana anni luce. Il settore estrattivo in Norvegia dà lavoro a 80.000 persone. In regione non si arriva nemmeno a 500 unità. 

La ricchezza proveniente dal fondale marino, gestita fino al 2007 dalla società statale Statoil, è servita a trasformare il Paese in uno dei più moderni al mondo, grazie agli ingenti investimenti in infrastrutture.  Ed aumentare il benessere collettivo attraverso un paradigma riduzione dei costi-aumento del reddito. Ma da quelle parti hanno pensato anche il futuro: spalmare la ricchezza generata su un periodo più lungo, in vista della graduale diminuizione delle risorse, fino al loro completo esaurimento. Hanno costituito una sorta di fondo pensione petrolifero: il secondo più grande al mondo. Risorse  investite in azioni, bond e obbligazioni. E’ interessante poi analizzare l’approccio del paese del Nord Europa rispetto alla questione energetica: i proventi generati dalle fonti “sporche” sono stati utilizzati per investire su fonti pulite: idroelettrico ed eolico off shore. Già due anni fa la Norvegia era in grado di  soddisfare il 60 per cento dei suoi bisogni energetici attraverso le rinnovabili (tre volte l’obiettivo europeo per il 2020). E proprio dal più grande produttore di petrolio dell’Europa occidentale è arrivata l’auto pulita, completamente elettrica, che si è classificata al top di tutte le classifiche di vendita. Ci sono almeno due motivi per opporre che la semplice sovrapposizione dei due casi non puo’ funzionare. 

La prima sta nelle condizoni di partenza: prima che iniziasse l’esperienza petrolio il Paese del Nord Europa aveva già un benessere diffuso, al contrario della Basilicata, da sempre regione povera.  L’altra, sicuramente più importante, è che nel primo caso si tratta di una risorsa nazionale, e non regionale, per altro in quantitativi nettamente superiori, con tutto quello che ciò comporta in termini di peso nelle contrattazione. Il presidente De Filippo lo ricorda in tutte le occasioni: quando la Regione Basilicata, allora presieduta dall’attuale viceministro, Filippo Bubbico andò a trattativa con Eni riuscì a strappare un importante risultato: ancorare il valore della compensazione economica al prezzo del petrolio. Oggi sappiamo che il 7 per cento di royalty sul valore totale prodotto è troppo poco, che quell’accordo ha fatto la sua storia, che c’è un Memorandum che dà nuovi indirizzi in fatto di opportunità per il territorio. 

L’instabilità politica anche a livello nazionale non aiuta la causa lucana. Ma è anche vero che la Basilicata in questo particolare compagine politica può contare su una rappresentanza istituzionale più forte a Roma, con un vice ministro e un capogruppo alla Camera. Sul territorio, invece, si dovrebbe partire da qui: nuova programmazione delle royalty, anche in virtù della fetta liberata dalla riduzione del debito della Sanità, e accordo regionale sulla nuova produzione di gas in Val d’Agri implementata dalla V linea, sulla scorta di quanto hanno fatto i comuni dell’area. Che in pratica potrebbe significare questo: ridurre sensibilmente i costi energetici di tutti i lucani. Ben oltre la miseria della card carburi che assegna non più di 100 euro annui a patentato. Vale la pena ricordare che a esempio che negli Emirati Arabi un litro di benzina costa meno di un litro d’acqua. Lo sconto gas sarebbe già un buon punto di partenza per iniziare a cambiare la percezione dei lucani rispetto al petrolio. Seppure i risultati raggiunti altrove, a causa delle eccessive diversità delle condizioni di partenza, non potranno essere ripetuti a casa nostra, sarebbe interessante incominciare a ragionare almeno sull’importazione del metodo.

m.labanca@luedi.it

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