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ERA il 26 giugno 1983 quando il procuratore capo di Torino, Bruno Caccia, veniva ucciso dalla ‘ndrangheta. A ridosso del trentennale, i suoi familiari rivolgono un appello, chiedono di riaprire le indagini: «Per noi vorrà dire riaprire una ferita, che per altro non si è mai del tutto chiusa. Ma lo sentiamo come un dovere, come un bisogno di giustizia per il nostro Paese», affermano i figli del magistrato, Paola, Cristina e Guido. Dopo cinque gradi di giudizio, per quella morte è stato condannato il boss originario di Gioiosa Ionica Domenico Belfiore, ritenuto il mandante dell’omicidio. «Ma è improbabile che abbia agito da solo e senza un movente», dice l’avvocato dei figli, Fabio Repici, secondo cui nell’indagine sulla morte di Caccia «ci sono ancora troppi buchi».   

ANCHE SAVIANO PER RICORDARLO – L’anniversario sarà ricordato nei prossimi giorni con numerose iniziative. Per la prima volta la Città di Torino ha organizzato una cerimonia in Municipio, il 26 giugno. In programma anche una commemorazione a Palazzo di Giustizia, la deposizione di una corona di allora nel luogo della tragedia e, il 27 giugno sempre a Palazzo di Giustizia, l’incontro dal titolo “Le mafie al Nord”, a cui è prevista la partecipazione tra gli altri di Roberto Saviano.

SI INDAGO’ PURE SULLE BR – Erano gli anni di Piombo e per le strade del capoluogo piemontese scorre il sangue del terrorismo e della criminalità organizzata. Ai principali quotidiani nazionali arrivano le prime rivendicazioni: da principio le Brigate Rosse, poi Prima Linea e persino in Nar. La matrice, però, si rivelò falsa e si fa strada l’ipotesi del crimine organizzato.   «Cercheremo di riportare a galla elementi di indagini trascurate negli anni, ma che potrebbero aggiungere elementi di verità», dice l’avvocato Repici. Come il materiale sequestrato a casa di Rosario Cattafi, avvocato milanese vicino all’estrema destra e alla mafia in carcere all’Aquila in regime di 41 bis. Sospetti, ombre, dubbi, che si intrecciano alle indagini portate avanti in quegli anni da Caccia. «E’ improbabile che Belfiore abbia agito da solo e senza movente», insiste il legale, che ipotizza il «coinvolgimento in concorso di soggetti calabresi e catanesi».   Trent’anni dopo quei dubbi sono scritti nero su bianco nella richiesta che il legale presenterà alla procura di Milano, perchè il caso venga riaperto.

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