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Restivo è tornato 
Anche nella sentenza di primo grado  si citava la reazione del capoluogo
Potenza  città sospesa
Danilo nel memoriale: «Città piena di odio e pregiudizi su me»E la difesa rincara: è la comunità ad averne fatto un mostro 
di SARA LORUSSO
E sì che è stato lui, spiega, a voler andar via da Potenza. Danilo in questa città non ci voleva più stare. «Una città piena di ignoranza, pregiudizio, odio, falsità, disprezzo e pettegolezzi nei miei confronti». Se ne è andato Restivo dalla città in cui era cresciuto, in cui aveva provato a inserirsi. Senza neanche riuscirci. 
«Sono io che sono andato via». Lo scrive, lo dice. Lo ha spiegato  durante l’udienza in cui ha letto un lungo memoriale. E’ lui l’autore, dice una sentenza del tribunale di Salerno, dell’omicidio di Elisa Claps, scomparsa da Potenza il 12 settembre 1993, uccisa quel giorno stesso, si scoprirà anni dopo. Diciassette per la precisione, quando il suo corpo viene trovato consumato, martoriato, nel sottotetto della chiesa della Trinità. 
E’ una storia complicata e triste, che è diventata storia di un’intera città. Per come Potenza ha vissuto il dolore della perdita, per come ha dovuto scoprire la chiesa più antica violata, per come si è divisa, separata, lacerata man mano che le indagini spiegavano, svelavano, cambiavano. 
Ancora cerca la verità, la comunità che adesso attende un nuovo verdetto. Danilo ha cambiato avvocati e strategia. I suoi legali smontano vecchie prove, lanciano nuovi dubbi, raccontano nuovi punti di vista. La città aspetta, e lo sa che c’è dell’altro. Che la «verità» tanto cercata, quella dello striscione che per mesi ha addobbato il portone della Trinità, sta anche altrove. Sta nel racconto di una storia fatta anche di sospetti, silenzi, depistaggi.
Non ci stava bene in questa città Danilo. Lo prendevano in giro, e a tagliare i capelli ci era finito per farsi forte in una scommessa. «Crescendo diventa il colpevole perfetto» ha detto il suo avvocato Marzia Scarpelli. Nella difesa emerge il ritratto dell’allora ventenne: ragazzo complicato, è vero, ma è la comunità ad averne poi fatto il «mostro» da condannare.
Per quel delitto di cui è ancora una volta accusato – mentre cerca di ribaltare in appello la condanna a trent’anni in primo grado – la città di Potenza si è meritata un risarcimento. Il giudice Elisabetta Boccassini – come si legge nelle motivazioni della sentenza di condanna di Restivo in primo grado – ha voluto risarcire il capoluogo, attraverso il riconoscimento del danno al Comune. Nelle motivazioni la Potenza descritta fornisce un po’ il contesto che poi Danilo ha tracciato nel proprio memoriale. E’ una città ferita nella sua immagine di città tranquilla, città dal «contesto sociale non pregiudicato da vicende particolarmente violente e spregiudicate». Tra quelle città che «difficilmente» finiscono in tv «all’attenzione della cronaca», scriveva la Boccassini. Potenza «non voleva accettare, né condividere tali forme di violenza»: immersa in un «clima di generale sospetto», aggrovigliato tra i vicoli, la chiesa e la piazza del capoluogo, voleva «rivendicare una consuetudine di civiltà e rispetto, propria dei lucani». A riannodare il filo di anni di indagini e commenti, ricerche, si riscopre, diceva il gup, anche una certa «paura» (quasi «omertà»), nel raccontare quanto si sapeva, fino a imbattersi, spesso, nella «condizione di sospetto e al tempo stesso di smania di protagonismo». Allora, diceva Boccassini, Potenza va risarcita perché la condotta di Restivo ha «interferito sulla considerazione» che i cittadini avevano della loro città, su come altre comunità l’hanno immaginata, come hanno imparato a raccontarla. 
Ora Potenza è di nuovo così, un po’ sospesa. 
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E sì che è stato lui, spiega, a voler andar via da Potenza. Danilo in questa città non ci voleva più stare. «Una città piena di ignoranza, pregiudizio, odio, falsità, disprezzo e pettegolezzi nei miei confronti». Se ne è andato Restivo dalla città in cui era cresciuto, in cui aveva provato a inserirsi. Senza neanche riuscirci. «Sono io che sono andato via». Lo scrive, lo dice. Lo ha spiegato  durante l’udienza in cui ha letto un lungo memoriale. E’ lui l’autore, dice una sentenza del tribunale di Salerno, dell’omicidio di Elisa Claps, scomparsa da Potenza il 12 settembre 1993, uccisa quel giorno stesso, si scoprirà anni dopo. Diciassette per la precisione, quando il suo corpo viene trovato consumato, martoriato, nel sottotetto della chiesa della Trinità. E’ una storia complicata e triste, che è diventata storia di un’intera città. Per come Potenza ha vissuto il dolore della perdita, per come ha dovuto scoprire la chiesa più antica violata, per come si è divisa, separata, lacerata man mano che le indagini spiegavano, svelavano, cambiavano. Ancora cerca la verità, la comunità che adesso attende un nuovo verdetto. Danilo ha cambiato avvocati e strategia. I suoi legali smontano vecchie prove, lanciano nuovi dubbi, raccontano nuovi punti di vista. La città aspetta, e lo sa che c’è dell’altro. Che la «verità» tanto cercata, quella dello striscione che per mesi ha addobbato il portone della Trinità, sta anche altrove. Sta nel racconto di una storia fatta anche di sospetti, silenzi, depistaggi.Non ci stava bene in questa città Danilo. Lo prendevano in giro, e a tagliare i capelli ci era finito per farsi forte in una scommessa. «Crescendo diventa il colpevole perfetto» ha detto il suo avvocato Marzia Scarpelli. Nella difesa emerge il ritratto dell’allora ventenne: ragazzo complicato, è vero, ma è la comunità ad averne poi fatto il «mostro» da condannare.Per quel delitto di cui è ancora una volta accusato – mentre cerca di ribaltare in appello la condanna a trent’anni in primo grado – la città di Potenza si è meritata un risarcimento. Il giudice Elisabetta Boccassini – come si legge nelle motivazioni della sentenza di condanna di Restivo in primo grado – ha voluto risarcire il capoluogo, attraverso il riconoscimento del danno al Comune. Nelle motivazioni la Potenza descritta fornisce un po’ il contesto che poi Danilo ha tracciato nel proprio memoriale. E’ una città ferita nella sua immagine di città tranquilla, città dal «contesto sociale non pregiudicato da vicende particolarmente violente e spregiudicate». Tra quelle città che «difficilmente» finiscono in tv «all’attenzione della cronaca», scriveva la Boccassini. Potenza «non voleva accettare, né condividere tali forme di violenza»: immersa in un «clima di generale sospetto», aggrovigliato tra i vicoli, la chiesa e la piazza del capoluogo, voleva «rivendicare una consuetudine di civiltà e rispetto, propria dei lucani». A riannodare il filo di anni di indagini e commenti, ricerche, si riscopre, diceva il gup, anche una certa «paura» (quasi «omertà»), nel raccontare quanto si sapeva, fino a imbattersi, spesso, nella «condizione di sospetto e al tempo stesso di smania di protagonismo». Allora, diceva Boccassini, Potenza va risarcita perché la condotta di Restivo ha «interferito sulla considerazione» che i cittadini avevano della loro città, su come altre comunità l’hanno immaginata, come hanno imparato a raccontarla. Ora Potenza è di nuovo così, un po’ sospesa. 

 

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