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MILANO – Un delitto di impeto, un «raptus» e non un omicidio premeditato e imposto dalle leggi della ‘ndrangheta. Questo è stato l’omicidio di Lea Garofalo, la testimone di giustizia sequestrata e uccisa nel novembre del 2009 a Milano, nel racconto del suo ex marito Carlo Cosco, già condannato all’ergastolo in primo grado e che oggi, durante un’udienza del processo d’appello, ha voluto raccontare la sua versione dei fatti.
Sempre stando al racconto di Carlo Cosco, Venturino gli avrebbe detto ‘cosa stai facendo, l’ammazzi?’. «E’ successo quello che non doveva succedere, allora ho preso un lenzuolo nell’armadio – ha proseguito Cosco – e ce l’ho messa dentro, con gli stracci ho raccolto il sangue, ho preso i due telefoni di Lea dalla borsa». «Venturino era completamente morto, gli ho dovuto buttare dell’acqua addosso perchè non si riprendeva… poi gli ho detto di chiamare Rosario Curcio e farsi dare una mano per fare sparire il corpo». Questa versione di Cosco si discosta notevolmente da quella raccontata nelle scorse udienze da Carmine Venturino, che è stato condannato all’ergastolo in primo grado e poi ha deciso di rivelare particolari inediti sull’omicidio dal carcere. Secondo il pentito, quello di Lea Garofalo fu un omicidio preceduto da pedinamenti e tentantivi di eliminare la testimone di giustizia, colpevole di avere infranto le leggi della ‘ndrangheta. Tutto negato oggi da Cosco che smentisce di appartenere alle ‘ndrine, accusa Venturino di avere fatto ‘un castello di sabbia» e nega anche di avere coltivato il progetto di uccidere anche Denise, come detto sempre da Venturino.
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