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NON è certo un esordiente nelle zone di guerra, il giornalista calabrese Amedeo Ricucci, inviato Rai, rapito nel nord della Siria insieme alla truope di free lance che guidava in un servizio nel nord della Siria. Negli ultimi vent’anni ha seguito tutti i più importanti conflitti mondiali: Algeria, Somalia, Bosnia, Ruanda, Liberia, Kosovo, Afghanistan, Libano, Iran, Iraq Palestina, Tunisia, Libia. Era stato anche in Siria, anche nell’ottobre scorso, quando ha realizzato una sorta di diario video
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Nato a Cetraro il 31 luglio 1958, dopo la laurea in Economia e un master in Relazioni Internazionali lavora per quattro anni nell’Ufficio Stampa dell’Unicef per l’Africa Occidentale e Centrale, esperienza che metterà a frutto collaborando con diverse testate italiane, tra cui Il Manifesto, Avvenimenti, L’Espresso e Nigrizia. Diventa giornalista professionista e nel 1993 inizia a lavorare in Rai con Professione reporter, insieme a Milena Gabanelli.
Ora è una delle firme di punta dei documentari della trasmissione “La Storia siamo noi”. Nel suo curriculum ci sono però anche i trascorsi al Tg1 e Mixer. Numerosi i riconoscimenti conquistati nella sua carriera, tra i quali il premio Ilaria Alpi, vinto nel 2001, e il Premio Giornalisti del Mediterraneo, nel quale ha trionfato nell’ultima edzione.
Ma è stata solo una vertenza a sbloccare la sua carriera professionale. E’ lui stesso a raccontarlo: “Nel 1993 – scrive – mi sono innamorato di una piccola telecamera ed è iniziata, assieme a Milena Gabanelli, la mia avventura in RAI, con Professione Reporter. Non sapevo però che mi aspettavano 10 anni di precariato. E così, dopo aver fatto l’inviato all’estero per anni, a Professione Reporter, a Mixer e al TG 1, coprendo le crisi internazionali più importanti, ho deciso che era tempo di far causa alla Rai, visto che non c’era altro modo per far valere i miei diritti. Nel 2004 un giudice del lavoro ha imposto la mia assunzione, cosa di cui vado molto fiero perché, a differenza di molti miei colleghi, non ho leader politici da ringraziare e riverire per il lavoro che faccio”.
Sa bene cosa rischiano i giornalisti nei luoghi di guerra: in cui sono chiamati a operare: il 13 marzo 2002 era presente al momento dell’uccisione del fotografo del Corriere della Sera, Raffaele Ciriello avvenuta a Ramalla. Su questo episodio ha pubblicato un libro: La guerra in diretta-Iraq, Palestina, Afghanistan, Kosovo. Dal 2011 racconta le sue esperienze su un blog “Ferri vecchi”. E così, scherzosamente, descrive il suo lavoro: “da ormai più di 20 anni racconto storie. All’inizio era solo un gioco, perché l’unica cosa in cui credevo era la Rivoluzione; col tempo, però, mi sono appassionato, anche perché era sempre meglio che lavorare”. Poi aggiunge: “Ah, dimenticavo. I Ferri Vecchi sono quelli del mestiere: la curiosità, l’onestà, la passione, la competenza, il rispetto degli altri e l’etica del vero servizio pubblico, tanto per citarne alcuni. Per me il giornalismo si fa così. E anche se siamo nell’era del digitale, dei social network e del real time, io in tasca mi porto sempre i miei ferri vecchi. Pesano, sì, ma aiutano a risolvere le situazioni più difficili”.
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