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La piccola, intima, nostalgica soddisfazione è che Bennato mi è sempre piaciuto e il Grillo parlante contro cui il cantautore si è scagliato in questi giorni allargando la rete al vituperio dei Cinquestelle è proprio la metafora di un’Italia collodiana ingannata dai furbi, illusa, dispersa, involgarita e ammalata.
Chi l’aveva costruita, pensando di modellare un paese che prendeva forma e sembianze, si è trovato tra le mani una penisola di cialtroni, ricchi in fuga oltralpe e poveracci a metà, quelli affamati per davvero e quelli che reclamano assistenza perché non sanno fare niente, come i presunti formati di roba tipo Copes in Basilicata. Questa campagna elettorale durata anche troppo non ha visto un solo confronto pubblico e collettivo dalle nostre parti. Molte,moltissime iniziative di partito, appelli di categoria ai quali nessuno (o pochissimi) hanno risposto, foto di qua e di là perché fa tendenza, fitte agende elettorali in giro per il territorio, parola desueta come ragionavamo l’altra mattina con Emma Fattorini, ma che qui in Basilicata continua ad avere un significato profondo.
La modernità delle grandi arterie rende i luoghi non luoghi, monotono l’attraversamento, inavvertibile la traccia. Qualunque cosa succederà da domani in Italia, è questa nostra indistruttibile identità sulla quale dobbiamo ragionare.
La storia d’Italia è dentro le sue piccole comunità. Contano le politiche di governo, certo. E prima ancora quelle europee. Conta soprattutto una visione di riferimento. Laica, per quel che mi riguarda, di interesse diffuso. Perché la parola “collettiva” è a mio avviso un concetto sul quale bisogna intendersi meglio. Rischiamo che l’Italia passi da un comico all’altro. Conterà molto la cultura costruttiva di un’adeguata e si spera non furiosa e farsesca opposizione. Sarà difficile.
Non voto da molti anni, sono una laica terzista per formazione e una progressista per valori. Ma non credo che ciò conti molto, oggi. Alla denuncia, possibilmente poco rabbiosa, bisogna unire l’impegno serio di una ricostruzione. Vero è che la rabbia è direttamente proporzionata alle angosce sociali dei nostri tempi. E all’austerity che non possiamo più sopportare. E torniamo alla nostra piccola patria. La rete del potere lucano deve iniziare ad essere impopolare. Scrissi tempo fa, ad esempio, che la questione don Uva non si potrà mai risolvere se non si accetta l’idea che i lavoratori sono troppi. Bisogna avere il coraggio di dirlo e agire di conseguenza. Ieri abbiamo pubblicato un lungo intervento del governatore sul sistema di mobilità in uscita dalla regione in risposta alle polemiche materane su un presunto interesse della regione ad investire nell’aeroporto di Pontecagnano.
Fiumi di parole, sindaci e amministratori materani che si sono arrabbiati, Pisticci dimenticata… A parte la considerazione che quella conferenza stampa con Letta in aeroporto era un evidente incontro elettorale dunque le parole vanno prese al netto del “detto tanto per dire” imposto dalle circostanze, la sindrome da accerchiamento di Matera lascia a volte veramente interdetti. Dicevamo di quel famoso “territorio”, scoperto dall’attraversamento di chi non è lucano: dovrebbe divenire consapevolezza collettiva, Pontecagnano, Bari e Pisticci non sono in antagonismo in una visione moderna di mobilità. Altro poi è ragionare se vale la pena farlo, se è questo che serve, se è questo su cui puntare.
Matera è come una donna di straordinaria seduzione inconsapevole di esserlo. Goda dei suoi trionfi, della sua superba, incancellabile vecchiaia di bellezza, non si impoverisca dietro i camminamenti sordi dei travet da capoluogo di registri. La ferrovia fino a Matera? Ma siamo proprio sicuri che serva? Da dove ripartire? Il futuro della Basilicata è strettamente connesso a quello dell’Italia. Ma è anche vero il contrario. E non è un vecchio slogan sul Mezzogiorno, è un verità di opportunità, risorse, autonomie che questa terra offre. Allora ripartiamo con un po’ d’orgoglio da queste certezze. Domani ragioneremo sul risultato elettorale. Oggi è la domenica del voto.
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