X
<
>

Share
13 minuti per la lettura

 

La nostra vita nell’era digitale
DERRICK De Kerckhove – protagonista ieri della prima giornata di “Potenza goes smart. Small town, smart guys” –  è un filosofo, sociologo, accademico e critico letterario belga naturalizzato canadese.
È il direttore del programma McLuhan in Cultura e Tecnologia e  autore di “La pelle della cultura e dell’intelligenza connessa”, nonché  docente universitario nel Dipartimento di lingua francese all’Università di Toronto. Attualmente è docente presso la Facoltà di sociologia dell’Università degli Studi di Napoli Federico II dove è titolare degli insegnamenti di “Sociologia della cultura digitale” e di “Marketing e nuovi media”. Di seguito l’intervista al sociologo della comunicazione digitale.
di LUCIA SERINO
E’ possibile parlare oggi di una democrazia dell’informazione, rispetto al monopolio della mediazione giornalistica degli anni  passati? E’un bene? O, mancando il filtro del controllo, un rischio?  
«Certo che è possibile. Io credo che alla fine andremo verso un futuro di questo tipo, così come è successo con la democrazia politica dopo l’introduzione dell’alfabeto in Grecia e a Roma. Sono stati processi lunghi. Però rispetto ad allora, oggi ci vorrà meno tempo per avere effetti così importanti. L’evoluzione e la rivoluzione del sociale, soprattutto quando dipendono dagli strumenti che trasportano il linguaggio, oggi sono velocissime. Alcune hanno anche conseguenze brutali: le guerre mondiali sono state guerre del telegrafo e della radio. Le guerre dell’epoca di Internet le stiamo vedendo accadere: pensiamo alle conseguenze attuali della “Primavera araba”. Nel frattempo la mediazione giornalistica sta avendo benefici dalla contaminazione con la popolazione connessa e twittante. La verifica viene dalle fonti tradizionali (che non possono rischiare di diffondere notizie false), però l’informazione in tempo reale viene della gente, e tutto si consolida anche nella comunicazione degli individui con le testate tradizionali. Si filtrano mutualmente».   
Come cambia la nostra vita nell’era digitale? L’intellettualità diffusa quali effetti può avere sugli ultimi? 
«Dobbiamo confessare che passiamo sempre più tempo davanti a uno schermo, di qualsiasi tipo sia. È già questo è di per sé un cambiamento nel nostro uso dello spazio e del tempo. Però questo comporta anche un cambiamento “mentale”, che deriva dall’essere così connessi, raggiungendo sempre chiunque e qualunque informazione. Ed essendo sempre raggiungibili. Certo, il fatto di avere accesso al mondo intero è una cosa visibilmente utile. Però non si capisce bene ancora che conseguenze porterà il fatto che anche il mondo ha accesso a noi stessi. Siamo bagnati, innervati nell’informazione in tutte forme, tutte regolate dall’elettricità e della sua figlia, la digitalizzazione. L’intellettualità diffusa è un principio di coesione. La collaborazione di tutti su Facebook, con Twitter, nella creazione di apps, nella ricerca scientifica, nella produzione e promozione di servizi e prodotti, è un segno di crescita dell’intelligenza collettiva. La forma globale dell’intelligenza è la somma di tutte le intelligenze individuali, a partire dai milioni di connessioni intelligenti. L’intelligenza collettiva è quella che forma un’etica diversa. In qualche momento, in un futuro non troppo lontano, vedremo accadere un riconoscimento generale delle incompetenze, per non dire delle disonestà dell’ordine politico e finanziario (già in corso). Così come scopriremo l’urgenza di condividere di più rispetto all’intelligenza, il senso della nuova responsabilità sociale che deriva dell’essere così connessi».  
Connessi sempre, quale spazio rimane alla nostra mente per guardare, percepire, immaginare, toccare? 
«Sono tutte cose che già facciamo. Elettronicamente o no. Però tutti i sensi elettronici sono – come diceva il grande culturologo Walter Ong – “secondari”. I sensi primari non spariscono, però vengono estesi e per questo trasformati dalle loro estensioni. Il toccare aumentato dalla tecnologia (tipo Wii o sensurround) è un modo di sentire paradossale però assolutamente indiscutibile. La vicinanza che ci consente la telepresenza su Skype ha una sottile dimensione tattile. Noi siamo nell’era del “Logos” secondario, con i sensi ricostruiti e riconfigurati digitalmente, in uno spazio in cui navighiamo, con il potere magico della parola digitalizzata. E si naviga proprio nello spazio mentale che rimane. Il problema arriverà quando la profilazione di tutti noi, le informazioni che gli altri avranno sui nostri comportamenti, saranno talmente rilevanti che non potremo più evitare le scelte fatte per noi invece di quelle che facciamo noi. La vera prigione potrebbe essere questa, piuttosto di qualche forma di fascismo elettronico. Il mondo di Huxley piuttosto che quello di Orwell».       
L’introduzione del computer alleggerì il rigore della mente: si poteva andare avanti e indietro, correggere. Il file divenne fluido, il pensiero di carta era rigido, ma senza dubbi. Oggi a che punto siamo?  
«Il pensiero elettrico sembra sicuramente più fluido, però può anche essere rigido a modo suo. Così come può essere fluido il pensiero di carta. Il pensiero digitale, multimedia, ipertestuale, iper-connesso è sempre condiviso con una macchina, con un software, sempre aumentato, sempre esternalizzato. Ci resta solo il corpo individuale per resistere alla possessione digitale. Oggi siamo al centro della fase di transizione, nel momento della scelta fra individualismo e appartenenza alla comunità on-line, fra il culto dell’identità privata e quella esportata su Facebook, fra la carta e lo schermo».  
Il mezzogiorno d’Italia: può avere benefici nell’era digitale? Quali?
«Sul piano digitale il Mezzogiorno è molto in ritardo. Basta vedere il disastro del Forum delle culture di Napoli, però il problema è generale in Italia. Basta leggere le statistiche   che raccontano l’ignoranza o addirittura la sfida alla Rete . La fonte di questo disinteresse è il riflesso dell’indifferenza dannosa dello Stato italiano nei confronti della sua competitività globale e dello statuto Europeo e mondiale. Le leggi e i progetti di legge sull’accesso al Wi-Fi (legge Pisanu) o sul controllo dei server (i decreti Alfano) hanno fatto di tutto per ritardare lo sviluppo della digitalizzazione della popolazione. E intanto sono stati evidenti i benefici avuti da tutti i Paesi che hanno capito l’importanza della connettività per la popolazione. Potrebbe averli anche il Mezzogiorno. La questione è piuttosto se il Mezzogiorno li accetterà. Io credo di sì. Ho osservato lo sviluppo annuale dell’accesso ai servizi sul Web, e recentemente alle applicazioni. Prendiamo come esempio Msn nel 2004-2005, o l’arrivo di Facebook nel 2006. Twitter è un po’ più lento, però in crescita dal 2008. In genere gli studenti italiani ci arrivano in un anno, un anno e mezzo dopo quelli canadesi.  Oggi i miei studenti a Napoli sono abbastanza bravi a fare ricerca in Rete, mi  stupiscono sempre con la loro abilità e per il modo in cui creano cose innovative. Ed è il loro entusiasmo che resiste bene alle sfide di un’attrezzatura inadeguata nella facoltà. Mi aspetto che sarà questa la generazione in grado di introdurre davvero la Rete in Campania. In generale, una zona che dipende tanto del turismo come il Mezzogiorno non può non beneficiare della globalizzazione permessa dalla Rete». 
l.serino@luedi.it
Le intelligenze diffuse, i saperi plurimi, la tattilità residua
 Siamo al centro tra identità privata e appartenenza comunitaria
DERRICK De Kerckhove – protagonista ieri della prima giornata di “Potenza goes smart. Small town, smart guys” –  è un filosofo, sociologo, accademico e critico letterario belga naturalizzato canadese. È il direttore del programma McLuhan in Cultura e Tecnologia e  autore di “La pelle della cultura e dell’intelligenza connessa”, nonché  docente universitario nel Dipartimento di lingua francese all’Università di Toronto. Attualmente è docente presso la Facoltà di sociologia dell’Università degli Studi di Napoli Federico II dove è titolare degli insegnamenti di “Sociologia della cultura digitale” e di “Marketing e nuovi media”. Di seguito l’intervista al sociologo della comunicazione digitale.

DERRICK De Kerckhove – che sará protagonista domani dell’ultima  giornata di “Potenza goes smart. Small town, smart guys” –  è un filosofo, sociologo, accademico e critico letterario belga naturalizzato canadese. È il direttore del programma McLuhan in Cultura e Tecnologia e  autore di “La pelle della cultura e dell’intelligenza connessa”, nonché  docente universitario nel Dipartimento di lingua francese all’Università di Toronto. Attualmente è docente presso la Facoltà di sociologia dell’Università degli Studi di Napoli Federico II dove è titolare degli insegnamenti di “Sociologia della cultura digitale” e di “Marketing e nuovi media”. Di seguito l’intervista al sociologo della comunicazione digitale.

 

E’ possibile parlare oggi di una democrazia dell’informazione, rispetto al monopolio della mediazione giornalistica degli anni  passati? E’un bene? O, mancando il filtro del controllo, un rischio?  

«Certo che è possibile. Io credo che alla fine andremo verso un futuro di questo tipo, così come è successo con la democrazia politica dopo l’introduzione dell’alfabeto in Grecia e a Roma. Sono stati processi lunghi. Però rispetto ad allora, oggi ci vorrà meno tempo per avere effetti così importanti. L’evoluzione e la rivoluzione del sociale, soprattutto quando dipendono dagli strumenti che trasportano il linguaggio, oggi sono velocissime. Alcune hanno anche conseguenze brutali: le guerre mondiali sono state guerre del telegrafo e della radio. Le guerre dell’epoca di Internet le stiamo vedendo accadere: pensiamo alle conseguenze attuali della “Primavera araba”. Nel frattempo la mediazione giornalistica sta avendo benefici dalla contaminazione con la popolazione connessa e twittante. La verifica viene dalle fonti tradizionali (che non possono rischiare di diffondere notizie false), però l’informazione in tempo reale viene della gente, e tutto si consolida anche nella comunicazione degli individui con le testate tradizionali. Si filtrano mutualmente».   

Come cambia la nostra vita nell’era digitale? L’intellettualità diffusa quali effetti può avere sugli ultimi? 

«Dobbiamo confessare che passiamo sempre più tempo davanti a uno schermo, di qualsiasi tipo sia. È già questo è di per sé un cambiamento nel nostro uso dello spazio e del tempo. Però questo comporta anche un cambiamento “mentale”, che deriva dall’essere così connessi, raggiungendo sempre chiunque e qualunque informazione. Ed essendo sempre raggiungibili. Certo, il fatto di avere accesso al mondo intero è una cosa visibilmente utile. Però non si capisce bene ancora che conseguenze porterà il fatto che anche il mondo ha accesso a noi stessi. Siamo bagnati, innervati nell’informazione in tutte forme, tutte regolate dall’elettricità e della sua figlia, la digitalizzazione. L’intellettualità diffusa è un principio di coesione. La collaborazione di tutti su Facebook, con Twitter, nella creazione di apps, nella ricerca scientifica, nella produzione e promozione di servizi e prodotti, è un segno di crescita dell’intelligenza collettiva. La forma globale dell’intelligenza è la somma di tutte le intelligenze individuali, a partire dai milioni di connessioni intelligenti. L’intelligenza collettiva è quella che forma un’etica diversa. In qualche momento, in un futuro non troppo lontano, vedremo accadere un riconoscimento generale delle incompetenze, per non dire delle disonestà dell’ordine politico e finanziario (già in corso). Così come scopriremo l’urgenza di condividere di più rispetto all’intelligenza, il senso della nuova responsabilità sociale che deriva dell’essere così connessi».  

Connessi sempre, quale spazio rimane alla nostra mente per guardare, percepire, immaginare, toccare? 

«Sono tutte cose che già facciamo. Elettronicamente o no. Però tutti i sensi elettronici sono – come diceva il grande culturologo Walter Ong – “secondari”. I sensi primari non spariscono, però vengono estesi e per questo trasformati dalle loro estensioni. Il toccare aumentato dalla tecnologia (tipo Wii o sensurround) è un modo di sentire paradossale però assolutamente indiscutibile. La vicinanza che ci consente la telepresenza su Skype ha una sottile dimensione tattile. Noi siamo nell’era del “Logos” secondario, con i sensi ricostruiti e riconfigurati digitalmente, in uno spazio in cui navighiamo, con il potere magico della parola digitalizzata. E si naviga proprio nello spazio mentale che rimane. Il problema arriverà quando la profilazione di tutti noi, le informazioni che gli altri avranno sui nostri comportamenti, saranno talmente rilevanti che non potremo più evitare le scelte fatte per noi invece di quelle che facciamo noi. La vera prigione potrebbe essere questa, piuttosto di qualche forma di fascismo elettronico. Il mondo di Huxley piuttosto che quello di Orwell».       

L’introduzione del computer alleggerì il rigore della mente: si poteva andare avanti e indietro, correggere. Il file divenne fluido, il pensiero di carta era rigido, ma senza dubbi. Oggi a che punto siamo? 

 «Il pensiero elettrico sembra sicuramente più fluido, però può anche essere rigido a modo suo. Così come può essere fluido il pensiero di carta. Il pensiero digitale, multimedia, ipertestuale, iper-connesso è sempre condiviso con una macchina, con un software, sempre aumentato, sempre esternalizzato. Ci resta solo il corpo individuale per resistere alla possessione digitale. Oggi siamo al centro della fase di transizione, nel momento della scelta fra individualismo e appartenenza alla comunità on-line, fra il culto dell’identità privata e quella esportata su Facebook, fra la carta e lo schermo». 

 Il mezzogiorno d’Italia: può avere benefici nell’era digitale? Quali?

«Sul piano digitale il Mezzogiorno è molto in ritardo. Basta vedere il disastro del Forum delle culture di Napoli, però il problema è generale in Italia. Basta leggere le statistiche   che raccontano l’ignoranza o addirittura la sfida alla Rete . La fonte di questo disinteresse è il riflesso dell’indifferenza dannosa dello Stato italiano nei confronti della sua competitività globale e dello statuto Europeo e mondiale. Le leggi e i progetti di legge sull’accesso al Wi-Fi (legge Pisanu) o sul controllo dei server (i decreti Alfano) hanno fatto di tutto per ritardare lo sviluppo della digitalizzazione della popolazione. E intanto sono stati evidenti i benefici avuti da tutti i Paesi che hanno capito l’importanza della connettività per la popolazione. Potrebbe averli anche il Mezzogiorno. La questione è piuttosto se il Mezzogiorno li accetterà. Io credo di sì. Ho osservato lo sviluppo annuale dell’accesso ai servizi sul Web, e recentemente alle applicazioni. Prendiamo come esempio Msn nel 2004-2005, o l’arrivo di Facebook nel 2006. Twitter è un po’ più lento, però in crescita dal 2008. In genere gli studenti italiani ci arrivano in un anno, un anno e mezzo dopo quelli canadesi.  Oggi i miei studenti a Napoli sono abbastanza bravi a fare ricerca in Rete, mi  stupiscono sempre con la loro abilità e per il modo in cui creano cose innovative. Ed è il loro entusiasmo che resiste bene alle sfide di un’attrezzatura inadeguata nella facoltà. Mi aspetto che sarà questa la generazione in grado di introdurre davvero la Rete in Campania. In generale, una zona che dipende tanto del turismo come il Mezzogiorno non può non beneficiare della globalizzazione permessa dalla Rete». 

Share
root

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

Share
Share
EDICOLA DIGITALE