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VIBO VALENTIA – «Signor ministro riapra quel carcere». L’appello a riaprire il penitenziario di Laureana di Borrello arriva anche dal Premio Nobel, Dario Fo. La struttura modello intitolata al magistrato calabrese Luigi Daga, dove si privilegiavano i rapporti personali e le attività trattamentali puntavano ad offrire ai detenuti un’opportunità di riscatto venne aperta nel 2004. Fu l’allora ministro della Giustizia Roberto Castelli a inaugurarlo rmostrandosi impressionato per la sfida che l’allora provveditore Paolino Quattrone intendeva lanciare alla ndrangheta.
Poi ad un altro ministro della Giustizia Angelino Alfano era toccato il compito di riconoscere che quell’idea di far sottoscrivere ai giovani detenuti condannati per la prima volta un patto che li impegna in un percorso di rieducazione era stata vinta. Non più un carcere inteso come università del crimine, ma un luogo dove la pena viene vissuta come un’opportunità. A distanza di quasi otto anni dalla sua apertura il 29 settembre scorso il carcere venne chiuso “temporaneamente” dal Dap con la motivazione di utilizzare i 23 agenti in servizio a Laureana per il trasferimento dei detenuti nei maxi processi alla’ndrangheta.
«La chiusura di quel carcere – afferma – mi ha molto colpita perché oltre ad essere un istituto modello avevo potuto apprezzare con quale animo, con quale entusiasmo i ragazzi mi seguivano». Lei ha appena concluso il corso di teatro diretto da Franca Rame, Jacopo e Dario Fo, tenuto dall’Università di Alcatraz a Santa Cristina di Gubbio. L’occasione era troppo importante perché Anna Faga non informasse del suo rammarico per la chiusura del carcere reggino ai numerosi artisti partecipanti al corso. E su input di Dario Fo e Franca Rame, ha pertanto inviato una lettera al ministro della Giustizia Paola Severino, sottoscritta da tutti i corsisti, una cinquantina. Primi firmatari Fo e la moglie. «Far andare via Domenico, Sergio, Lorenzo, Davide… tutti, dalla casa di reclusione di Laureana di Borrello – scrive al ministro Anna Faga -, un sabato mattina, all’improvviso e smontare e portare via la loro cucina, come se uomini e cose avessero lo stesso destino, è stato davvero un atto doloroso! Domenico e tutti gli altri sono andati via piangendo, perché lasciavano quello che avevano imparato ad amare: il lavoro, nei laboratori di falegnameria, di ceramica, le api e il miele, il giardinaggio e il teatro dove si sperimentava la meraviglia di sentirsi creativi e protagonisti nella condivisione di un progetto che prevede anche la presentazione al pubblico dello spettacolo finale, cresciuti e fattosi bello perché tutti si sono impegnati al massimo, ascoltandosi l’un l’altro. Sono stati mandati via da un posto dove la certezza della pena stava parallela alla certezza d’interagire in situazioni di umanità ed in spazi vitali dignitosi».
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