X
<
>

Share
5 minuti per la lettura

 

CROTONE – Luigi Bonaventura, l’ex capocosca crotonese che da anni sta collaborando con la giustizia, starebbe per essere trasferito in un’altra località ma chiede condizioni di sicurezza e rinnova l’appello a Napolitano per la scorta. «Anche se – dice – volevano sapere se rifiutassi il trasferimento prima di notificarmi la comunicazione». Mentre l’avvocato Calabretta, avendo subito il suo assistito crimini, chiede il riconoscimento dello status di testimone di giustizia. Ma il desiderio di Bonaventura è quello di fuggire all’estero incassando un premio per la risoluzione del contratto con lo Stato, dal quale non si sente tutelato.

 

GUARDA L’INTERVISTA ALLA MOGLIE DI BONAVENTURA IN OCCASIONE DELL’8 MARZO

 

E proprio in questo periodo spunta una lettera, risalente al settembre 2007, con cui un ucraino annunciava morte per i “Buonaventura”. Forse era un errore. Forse voleva dire Bonaventura, cognome pesante a Crotone perché si tratta di una delle famiglie del cartello di ‘ndrangheta dominante nella città di Pitagora. Forse voleva dire Bonaventura perché la lettera era indirizzata a un esponente del clan Ferrazzo di Mesoraca, sempre nel Crotonese. A rivelarlo al Quotidiano è il collaboratore di giustizia Luigi Bonaventura, ex reggente della cosca Vrenna Bonaventura Corigliano, interrogato sul caso, proprio nei giorni scorsi, da un magistrato della Dda dell’Aquila. C’erano anche un capitano dei carabinieri e il legale di Bonaventura, l’avvocato Giulio Calabretta. «Mi è stata sottoposta questa lettera per verificare se ne sapessi qualcosa e se fossi in grado di decifrarne il contenuto – dice Bonaventura – quello che è certo è che nel settembre 2007 io già collaboravo con la giustizia». Il pentito fornisce una sua lettura dell’episodio, che ha a che fare con le falle del sistema di protezione, mentre, sullo sfondo, la Commissione centrale ha disposto il suo trasferimento per motivi di sicurezza. E, in particolare, per «oggettive condizioni di esposizione a pericolo del collaboratore di giustizia e dei suoi familiari nell’attuale località per effetto del disvelamento del luogo di dimora da parte di organi di informazione a seguito del rilascio di interviste non autorizzate da parte dello stesso collaboratore». Anche se, a dire il vero, siamo in possesso di elementi per confutare tale circostanza. La prima volta che il pentito ha parlato di Termoli, la cosiddetta località protetta, è stata il 23 gennaio scorso, davanti al Tribunale penale di Crotone, nel corso di un’udienza del processo Pandora, contro le cosche di Isola Capo Rizzuto. Lo ha fatto rispondendo a una domanda dell’avvocato Tiziana D’Agosto che, traendo spunto dalla prima intervista rilasciata da Bonaventura, pubblicata dal Quotidiano il 17 gennaio scorso, aveva chiesto approfondimenti su un passaggio inquietante («In tutte queste cosiddette località protette, i pentiti si incontrano e magari decidono insieme di cambiare rotta, se non l’hanno già deciso prima»).

Ma torniamo a Mesoraca. Che dice il misterioso ucraino ai Ferrazzo? «In sintesi dice che adesso si possono sentire perché la posta non è più controllata. presto più soldi, più droga, più armi, più potere. i Buonaventura sono già sotto sette metri di terra e pagheranno cosa hanno fatto ai tuoi fratelli». Questo è quello che Bonaventura riferisce al Quotidiano. Poi aggiunge che «il destinatario della lettera era Eugenio Ferrazzo».

 Eugenio Ferrazzo, residente a Campomarino (poco distante da Campobasso, dove Lea Garofalo, la testimone di giustizia di Petilia Policastro uccisa, subì un tentativo di rapimento), fu arrestato con la moglie e altre due persone nel maggio 2011. Furono bloccati in un garage della cittadina abruzzese adibito a raffineria di droga nel quale, oltre a 2,5 chili di cocaina in panetti, erano nascoste anche cinque pistole con la matricola abrasa. A San Salvo fu scoperta la raffineria. Campomarino, Termoli e San Salvo, tutte lungo la fascia costiera, distano tra loro una trentina di chilometri. Eugenio, poi, è il figlio di Felice, 57 anni, ex capo dell’omonimo clan di Mesoraca e dall’ottobre 2000, quando subì un attentato mentre viaggiava insieme al figlio su un’Alfetta blindata, è collaboratore di giustizia. L’arsenale sequestrato dalla polizia a Termoli (sempre in provincia di Campobasso) sarebbe stato nella disponibilità di Felice Ferrazzo, 56 anni, ex capo dell’omonimo clan di Mesoraca e da alcuni anni collaboratore di giustizia. Nel luglio dello scorso anno Felice Ferazzo fu arrestato a Milano perché, per l’accusa, era lui che aveva fittato il garage nel quale era stata rinvenuta un’auto piena di fucili mitragliatori, tra cui alcuni kalashnikov, pistole, silenziatori, passamontagna, giubbotti antiproiettile e munizioni. Dov’era l’arsenale? Sempre a Termoli.

Cosa diceva Bonaventura nell’intervista al Quotidiano? Che chi aveva fittato l’arsenale era la moglie di un addetto alla sua scorta,  che «quelle armi sarebbero servite ad uccidere me e la mia famiglia» e che era stato avvicinato da un «finto pentito» vicino ai Ferrazzo per essere attirato in una trappola.

Congetture e ipotesi, si dirà, ma a quest’arcipelago di elementi è da aggiungere che, sempre ad avviso di Bonaventura, il riferimento ai “fratelli” da vendicare potrebbe essere a tre ragazzi di Mesoraca, Domenico Ruberto, Francesco Zinna e Aurelio Lombardo Somma, scomparsi nel nulla il 29 giugno 2000, proprio nel giorno del suo matrimonio. «Non è da escludere un rancore che cova contro membri della mia famiglia per quelle sparizioni, di cui comunque non venni informato – osserva Bonaventura – e non è da escludere che ora si utilizzi il pretesto della collaborazione con la giustizia. Il primo abbordaggio -aggiunge il collaboratore di giustizia – mentre ero sotto protezione lo subii proprio nel periodo in cui Ferrazzo riceveva quella lettera».

 

 

Share

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

Share
Share
EDICOLA DIGITALE