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REGGIO CALABRIA – Dall’indagine “Califfo 2” che ha portato all’arresto di sei presunti affiliati alla cosca Pesce della ‘ndrangheta emerge ancora una volta la centralità del ruolo delle donne nell’organizzazione del gruppo criminale. Dei sei arrestati, infatti, tre sono donne. Si tratta di Maria Rosa Angiletta, di 30 anni; Maria Carmela D’Agostino (33) e Maria Grazia Spataro (25). Le altre persone finite in manette sono Giuseppe Fabrizio (38), e Demetrio e Domenico Fortugno, di 60 e 31 anni. Delle sette ordinanze di custodia cautelare emesse dal gip di Reggio Calabria su richiesta della Dda non è stata eseguita quella a carico di Giuseppe Pesce, di 32 anni, che è latitante dall’aprile del 2010 dopo essere sfuggito all’operazione “All inside”. A causa delle lunghe detenzioni imposte agli uomini, riferiscono i carabinieri, le mogli, da custodi della mentalità mafiosa all’interno delle mura domestiche tenutarie dei segreti di mariti, figli e fratelli, da tempo, hanno assunto un ruolo dinamico ed operativo in seno alla “cosca Pesce”. Una situazione che era già emersa nell’ambito dell’indagine «All Inside» in cui era stata evidenziata la posizione di numerose donne a cui era devoluto il compito di far transitare all’esterno le direttive dei boss in carcere. A Maria Grazia Messina, in particolare, era stata affidata la custodia della “bacinella”, la cassa comune della cosca in cui confluivano i proventi dell’attività illecita del gruppo criminale capeggiato dal genero, Antonino Pesce, e dal nipote Francesco Pesce. Nel corso dell’indagine viene accertato che a Maria Rosa Angilletta, Maria Grazia Spataro e Maria Carmela D’Agostino vengono intestate due imprese che in base ai loro redditi dichiarati non avrebbero mai potuto fondare o mantenere.

«Dopo l’arresto di Antonino Pesce “u testuni”, il clan aveva immediatamente posto in essere le condizioni per salvaguardare il patrimonio e per il passaggio delle consegne di comando al giovane Francesco Pesce, 34 anni, latitante da due anni». È quanto ha affermato il procuratore aggiunto della Dda, Michele Prestipino, nel corso della conferenza stampa al comando provinciale dei carabinieri, cui hanno preso parte il procuratore interinale, Ottavio Sferlazza, il col. Pasquale Angelosanto, il comandante del reparto operativo, Carlo Pieroni, il comandante provinciale del Ros, Marco Russo ed il capitano Ivan Boracchia, comandante della compagnia di Gioia Tauro. «E’ un’operazione significativa – ha sottolineato Sferlazza – che ha chiarito l’intero asse di comando della cosca Pesce e gli interessi sul territorio e che ha permesso, inoltre, l’applicazione del norma sull’intestazione fittizia dei beni, di cui sono titolari alcune donne legate da vincoli di stretta parentela con alcuni componenti della cosca». «Il nostro lavoro – ha aggiunto Prestipino – mira alla disarticolazione della forza armata delle cosche, al sequestro ed alla confisca dei patrimoni illeciti ed alla cattura dei latitanti. Subito l’arresto di Antonino Pesce – ha ricordato il procuratore aggiunto della Dda – i carabinieri riuscirono a sequestrargli un pizzino con delle indicazioni. Grazie a raffinate indagini condotte dal Ros siamo riusciti a risalire ai fiancheggiatori del boss latitante ed a ricostruire la catena di comando della cosca l’insieme delle attività lecite. Come nel caso della “Medma trasporti”, un’azienda affidata a Demetrio Fortugno, temibile concorrente per il deterrente mafioso insito, rispetto ad altri concorrenti sul territorio, costretti spesso a chiudere i battenti o ridurre al minimo le attività». Per il col. Pasquale Angelosanto, «è stata una indagine pura, sviluppata su intercettazioni e pedinamenti, riprese con telecamere». Angelosanto, infine, si è detto «fiducioso per il futuro delle indagini» mirate soprattutto alla cattura del nuovo capobastone dei Pesce, datosi alla macchia ed attivamente ricercato. 

Un altro dettaglio emerso è che il boss Francesco Pesce aveva la passione del Superenalotto e non rinunciava a giocare anche durante la sua latitanza, conclusasi il 9 agosto del 2011. L’esame delle immagini effettuate dai carabinieri nel corso delle indagini ha svelato che Francesco Pesce, in due occasioni, aveva delegato Giuseppe Pronestì, figlio di Antonio, arrestato lo stesso giorno in cui avvenne la cattura di Pesce, a giocargli dei numeri al Superenalotto. La mattina del 4 agosto Pronestì è stato ripreso nell’atto di conservare alcuni fogliettini assimilabili a schedine del Superenalotto. La sera del 9 agosto, inoltre, i carabinieri hanno trovato nella Panda di proprietà di Antonio Pronestì 8 ricevute del Superenalotto attestanti altrettante scommesse effettuate il 4 agosto precedente, e cioè negli stessi giorni in cui Giuseppe Pronestì aveva incontrato il ricercato. I numeri erano stati scelti dallo stesso latitante poichè i pronostici comprendevano la data di nascita di Francesco Pesce e quella di sua figlia Maria Grazia, nonchè il giorno (7) ed il mese (12) in cui era nato suo fratello Giuseppe Pesce. 

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