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«Mi prendo le mie responsabilità per la scelta che ho fatto riguardo all’imputazione, assunta con serenità, serietà e motivata». Così il pm di Milano Marcello Tatangelo ha replicato, davanti ai giudici della prima Corte d’Assise di Milano, al legale della sorella e della madre di Lea Garofalo – la donna calabrese che venne, secondo l’accusa, sequestrata e poi sciolta in 50 chili di acido dall’ex compagno – che lo ha invitato con forza a contestare agli imputati l’aggravante dell’aver agito con modalità mafiose. Intanto “corre” il processo, che vede alla sbarra l’ex compagno di Lea, Carlo Cosco, e altre 5 persone ritenute vicine dagli investigatori a una cosca della ‘ndrangheta del Crotonese (imputate a vario titolo per il sequestro e l’omicidio della donna). Dopo la ‘battuta d’arrestò del novembre scorso per il cambio del presidente della Corte (Filippo Grisolia diventato capo di gabinetto al Ministero della Giustizia e sostituito da Anna Introini), che aveva suscitato numerose polemiche (a luglio, infatti, scadono i termini di custodia cautelare per gli arrestati), sono state fissate nelle scorse settimane udienze a ritmo serrato. E oggi i giudici, dopo aver respinto le richieste delle difese di sentire ulteriori testi, hanno dichiarato chiuso il dibattimento e fissato la requisitoria per il 26 marzo (il 1 marzo, invece, ci saranno le dichiarazioni spontanee di Carlo Cosco).
Cinque giorni fa, l’avvocato Roberto d’Ippolito, che assiste la sorella Marisa Garofalo e Santina Miletta, la madre, parti civili assieme alla giovane figlia Denise (rappresentata però da un altro legale) ha inviato una memoria al pm Tatangelo per chiedergli di contestare l’aggravante mafiosa, che non è presente nel capo di imputazione. Oggi lo stesso documento è stato depositato ai giudici. Nella memoria il legale scrive che non c’è «dubbio alcuno in ordine al fatto che tutti i reati addebitati agli odierni imputati siano stati commessi con modalità d’azione di stampo mafioso e con il preciso scopo di agevolare l’attività di un’associazione di tipo mafioso». Risulta, si legge ancora, “ormai ampiamente e solidamente riscontrato che Carlo Cosco non aveva perdonato la decisione di Lea Garofalo di rompere il muro di omertà e di rivelare all’Autorità Giudiziaria i particolari di alcuni delitti di cui ella risultava essere a conoscenza». In aula il pm ha preso la parola e ha replicato, pur con la premessa di non poter entrare nel merito dell’imputazione anticipando la requisitoria. «Mi prendo le mie responsabilità per l’imputazione – ha spiegato – capisco la parte civile, ma la serietà mi impone di non contestare l’aggravante». E ha aggiunto: «Sono stato anche attento alle sollecitazioni a mezzo stampa e non solo». Da quanto si è saputo, uno dei motivi che hanno portato la Procura a scegliere di non contestare l’aggravante mafiosa sta nel fatto che si tratta di un tipo di aggravante ‘a dolo specificò, ossia deve essere l’unica finalità dell’azione. In questo caso, invece, gli imputati e l’ex convivente di Lea Garofalo avrebbero agito spinti da una serie di motivazioni e non da un unico fine. Carlo Cosco, in particolare, avrebbe agito non tanto per ‘tutelarè la cosca dalle rivelazioni della donna, ma per proteggere lui stesso. La stessa aggravante, inoltre, era già stata esclusa dal gip quando aveva emesso le ordinanze di custodia cautelare. Le difese parleranno il 27, il 29 e il 30 marzo, poi la sentenza
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