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di ETTORE JORIO

Una aggressione mediatica che non ha eguali quella che ha come destinatari i Pronto soccorso ospedalieri. Errata nei termini e nell’identificazione del vero “colpevole”.
Al di là di un maggiore impegno delle istituzioni a che gli stessi funzionino meglio – che ci sta tutto – l’aggressione all’attuale sistema delle emergenze rappresenta, infatti, un errore che allontana dai problemi reali. Esso “pronto soccorso” è, invero, incolpevole, fatte le dovute eccezioni (se accertate) per le responsabilità personali degli operatori che si dovessero rendere inadempienti ai loro doveri (ma è molto raro).
Perché un errore? Il pronto soccorso costituisce la punta del sistema, quella più esposta alla domanda incontrollata dell’utenza e più soggetta all’esame critico, più diretto ed estemporaneo. In esso vanno a riassumersi e a prendere corpo quasi tutte le inefficienze della macchina assistenziale, prima fra tutte quella territoriale.
Il suo naturale affollamento si determina, quindi, allorquando i diversi servizi disseminati sul territorio funzionano poco e male, a cominciare da quello garantito dai “medici di famiglia”. E non perché siffatte figure professionali non lavorino, bensì perché sono trascurate, spesso abbandonate dalle istituzioni al loro libero arbitrio.
Lo straordinario ricorso al servizio emergenziale avviene, pertanto, nell’ipotesi in cui la (ri)programmazione dell’organizzazione della salute – del tipo quella che dovrebbe necessariamente accompagnare soprattutto il c.d. piano di rientro – manca del tutto. Quello strumento di pianificazione dell’intervento che dovrebbe coinvolgere e responsabilizzare i diversi livelli e gradi di assistenza. E’ il formarsi della famiglia “assistenziale” che costituisce il grande problema italiano. Quella che dovrebbe sorgere dalle ceneri della deospedalizzazione attraverso la più ampia concertazione, allo scopo di stimolare la massima sensibilizzazione sul problema, nei confronti del quale tutti, se opportunamente coinvolti, offrirebbero la loro collaborazione.
In caso contrario, ecco il corto circuito!
In tutto questo, non si salva neppure il resto. Tant’è che è facile individuare disfunzioni organizzative della macchina organizzativa endo-ospedaliera. Con le diagnostiche prive di ciò che serve per ottimizzarne il funzionamento. Con le terapie specialistiche non più garanti dei servizi, orfani di risorse umane ed economiche, che, altrimenti, sarebbero capacissimi di rendere. Con le prestazioni accessorie che vengono assicurate dai parenti degli ammalati, piuttosto che dalla medesima istituzione di ricovero.
Insomma c’è da prendere atto di un decadentismo progressivo nella sanità italiana, che viene da lontano e raggiunge oggi l’apice della negatività.
I motivi. E’ dato constatare in questo periodo (vecchio oramai di oltre un decennio) 10 regioni con piani di rientro e 5 commissariate, tra le quali la Calabria. Tali regioni contano circa la metà della popolazione nazionale (29 mln). Per una strana combinazione (!), tra queste, le regioni con i peggiori servizi di pronto soccorso, pieni zeppi di blitz televisivi, cui seguono le dovute ispezioni ex post (es. Roma e Napoli).
In una simile situazione si consolida “doverosamente”, per una legge non scritta, l’obbligo esclusivo di dare conto dei danari. Così facendo diventa impossibile dare corso ad una corretta esecuzione delle politiche salutari regionali. A tutto questo va ad aggiungersi una rete di controlli, soprattutto ministeriali, non propriamente all’altezza dei loro compiti quanto a garanzia delle prestazioni assistenziali.
Le maggiori responsabilità sono ovviamente delle Regioni che fanno male il loro mestiere, impegnandosi (quando va bene) in termini ragioneristici e disattendendo la programmazione, quella vera. Sfuggono, infatti, dal riprogettare la loro macchina assistenziale, addirittura indebolita da quegli inconcepibili egoismi territoriali che tendono a riempire di strutture fisiche le aree cui si è più affezionati a discapito delle altre.
Premessi tali difetti, diventa davvero difficile mettere in piedi l’assistenza che non ha mai funzionato. Soprattutto farlo ridimensionando la spesa corrente, fino a ieri garantita a pioggia.
A bene vedere, prendersela con i pronto soccorso significa valutare (negativamente) la punta dell’iceberg trascurando il magma che c’è sotto. Lì, pronto ad esplodere.
Insomma, il solito brutto vizio di giudicare gli effetti senza individuare le cause, sulle quali incidere.
Dunque, ci sarà bisogno di trasformare gli attuali piani di rientro in tipici strumenti pianificatori di ampio respiro, così come originariamente intesi dal legislatore (2004), che li ha nominalmente definiti programmi operativi di riorganizzazione, di riqualificazione o di potenziamento dei servizi sanitari regionali.
Un modo per prendere atto di ciò che non ha mai funzionato, concentrare le risorse su ciò che serve e ridare protagonismo alla rete assistenziale, riconoscendo un ruolo primario (e forse più sorvegliato) ai medici di base, da incentivare e meglio retribuire localmente, in regime di risultato reale e validato.
Quanto appena prospettato potrebbe costituire il modo per ridare al servizio pubblico l’immagine che esso merita, nonché per assicurare la migliore produttività godibile per la collettività in termini di esigibilità dei Lea, da rideterminarsi e integrarsi principalmente nella componente socio-sanitaria.
Un obiettivo meritevole di attenzione, che diventa verosimilmente conseguibile separando istituzionalmente il gravoso “problema di ieri” dal “progetto del domani”, che dovrà essere riformulato e implementato a tal punto da esprimere correttamente le necessarie valutazioni sulle responsabilità, che saranno via via assunte, e sulle performance prodotte, fino ad oggi trascurate, da rilevarsi, nel prosieguo, a sistema e periodicamente.
Occorre, pertanto, l’elaborazione di un progetto correttivo dell’esistente, funzionale a dare certezza, trasparenza e credibilità alla gestione dell’ordinario, da ottimizzarsi nell’ottica della programmata spending review.

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