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di LELLA GOLFO*

Sottoscrivo con convinzione la proposta del Quotidiano di dedicare la giornata dell’8 marzo a Maria Concetta Cacciola, Lea Garofalo e Giuseppina Pesce e mi fa ancora più piacere che una simile iniziativa sia stata lanciata da un uomo. La sottoscrivo da donna, calabrese, parlamentare e presidente della Fondazione Marisa Bellisario. E che il mio non sia un appoggio solo formale lo testimonia l’impegno che in questi anni ho dedicato al tema del ruolo delle donne nella ‘ndrangheta. È appena di qualche mese fa il convegno che con la Fondazione Bellisario ho promosso a Reggio Calabria “L’altra metà della ‘ndrangheta, le donne, le cosche, il potere”. L’idea era nata dall’indignazione provata vedendo sui tg le immagini di un drappello di donne che applaude il boss della ‘ndrangheta Giovanni Tegano e grida: «avete preso un uomo di pace». Un’indignazione che mi ha portata a scrivere una lettera al Corriere della Sera e dopo pochi giorni ad andare al Tg2 per dare un senso a quelle scene. La domanda che mi sono posta è: qual è il ruolo di queste nuove “manager della ndrangheta”? Quali sono le loro colpe di madri che educano i propri figli a una cultura dell’illegalità? E cosa dobbiamo e possiamo fare noi tutti per capovolgere questa emancipazione al rovescio e per dare forza e dignità ai tanti esempi positivi che possono e devono guidare il cambiamento?
L’iniziativa del Quotidiano va certamente in questa direzione: dare luce all’altra faccia della ‘ndrangheta al femminile. Lea Garofalo e Maria Concetta Cacciola, ma anche Tita Buccafusca, Rita di Giovine, Rita Atria – alla quale abbiamo dedicato la V Edizione del Premio Bellisario “Donne e mafia: dentro, contro, fuori” nel lontano ’93 a Palermo – sono storie diverse e tragiche che non possono cadere nel silenzio ma devono diventare simbolo di un desiderio di riscatto. Così come una testimone come Giuseppina Pesce che oggi sta sciogliendo una matassa importante per gli investigatori e in una lettera inviata ai magistrati lo scorso settembre scrive: «Sono tornata indietro perché pensavo che i miei figli avrebbero smesso di soffrire. Sapevo che per me non ci sarebbe stato un futuro, che avrei fatto una brutta fine, ma speravo per loro. Dopo poco ho capito che comunque avrebbero pagato per la mia scelta e così ho chiesto di tornare a stare con la giustizia».
Sappiamo che la lotta alla ‘ndrangheta non si combatte solo nelle aule di giustizia e con le straordinarie operazioni delle forze dell’ordine.
Tocca a tutti noi – cittadini comuni, istituzioni, scuola, Chiesa, soggetti della società civile – sostenere e incoraggiare gli uomini e le donne coraggiosi che ogni giorno mettono la loro vita al servizio dello Stato. Dobbiamo avere la forza di mostrare e dare potente dignità ai tanti esempi positivi: penso alle donne che scelgono di stare dalla parte dello Stato, madri pronte all’esilio e anche alla morte per salvare i figli da un destino tragico; ai tanti magistrati donne e alle forze dell’ordine che operano in Calabria; alle imprenditrici che si ribellano al pizzo; ai sindaci come Elisabetta Tripodi e Carolina Girasole che hanno avuto il coraggio di porsi alla guida di comuni in cui essere oneste, forti, autorevoli e donne sembra un’impresa impossibile.
Anche a loro dobbiamo dedicare la giornata dell’8 Marzo. E in questa testimonianza importante dobbiamo anche fare nostro il concetto che l’antimafia non riguarda pochi eroi. Lo diceva Rita Atria, la giovane donna che per inseguire un ideale di giustizia troverà la morte. «Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici. La mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarsi». E durante il nostro Convegno di Reggio Calabria, un uomo che della lotta alla ‘ndrangheta ha fatto la propria ragione di vita come il Procuratore Giuseppe Pignatone ha ribadito: «E’ necessario imprimere in modo indelebile nella mente che il cambiamento è in primis un evento culturale».
Per questo, dedicare la giornata della Donna ai tanti esempi positivi di donne che devono e possono diventare ili simbolo della lotta alla ’ndrangheta deve essere solo il primo passo. Allo stesso tempo, soprattutto noi donne, dobbiamo avere il coraggio di condannare con forza le donne che restano dall’altra parte e di coltivare lo sdegno, di madri e calabresi. Accanto a Lea, Titta e Giuseppina ci sono le nuove manager della ndrangheta: donne scolarizzate, istruite, emancipate, che trasferiscono i latitanti e trattano l’acquisto di armi che gestiscono i conti correnti, fanno operazioni finanziarie, vigilano sulle estorsioni, riscuotono tangenti, mettono su imprese. Ma soprattutto sono donne che educano i loro figli alla vendetta, che trasmettono loro i codici di mafiosi. Madri che offrono all’esercito della ‘ndrangheta una generazione cresciuta nell’illegalità e che nell’illegalità cerca e trova il proprio futuro.
Vorrei che l’8 Marzo tutte le donne che credono nella Calabria onesta e produttiva; tutte le madri che sperano per i propri figli un futuro di legalità e lavoro; tutte le donne delle istituzioni che si impegnano per la rinascita di questa terra, tutte insieme alzino la testa e abbiano la forza di dire ‘BASTA! ‘No’ alla criminalità che imbavaglia le energie positive della nostra Calabria e ‘No’ anche a quelle donne che ormai guidano la ’ndrangheta con più spregio della vita e della legalità degli uomini. Solo così faremo giustizia alle tante Lea Garofalo che ci inorgogliscono e alle quali saremo sempre grate.

*Parlamentare Presidente Fondazione Marisa Bellisario

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