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POTENZA – Non è solo la sentenza che riporta di diritto Giovanni Barozzino, Marco Pignatelli e Antonio Lamorte all’interno della loro fabbrica. E’ un sasso che torna a smuovere le acque già agitate dell’attualissimo dibattito sulla riforma del lavoro e dell’articolo 18. Il punto di partenza per il ripristino dei principi di democrazia all’interno degli stabilimenti. La rivincita del sindacato mortificato dalle recenti parole del presidente Marcegaglia che lo vuole come il difensore di «ladri e fannulloni».
La notizia della decisione della Corte d’Appello di Potenza che ha accolto le ragioni della Fiom, condannato Fiat per condotta antisindacale, e reintegrato i tre operai licenziati a luglio del 2010, giunta ieri pomeriggio si è diffusa rapidamente, ed è stata immediatamente seguita dalle telefonate di gioia dei “compagni” di tutti gli stabilimenti. «Perché la sentenza rovescia il clima pessimo costruito ad arte dalla Fiat almeno da un anno». Lo dice senza paura di essere smentito Michele De Palma, della segreteria nazionale della Fiom, ieri a Potenza per la storica giornata. E il segretario lucano ribatte: «Una pietra miliare che mette definitivamente la parola fine ai continui tentativi della Fiat di fare fuori il nostro sindacato».
La conferenza stampa è stata convocata in tutta fretta dopo la lettura del tanto atteso dispositivo. Nella sala della Cgil, allestita con le bandiere della Fiom, c’è un clima di grande festa come mai si è visto da queste parti. I protagonisti sono loro: Giovanni, Marco e Antonio che a fatica nascondo l’emozione. E’ una vittoria sofferta. Arriva a più di un anno e mezzo di distanza, da quella notte tra il 6 e il 7 luglio del 2010, quando, nel corso di uno sciopero interno allo stabilimento, fu contestato loro il blocco volontario della produzione.
«E’ la vittoria degli operai, della Fiom, della Cgil, ma soprattutto della democrazia», è il commento di tutto il sindacato. Dal canto suo, Fiat liquida il post sentenza con un «no comment». Annuncia il ricorso in Cassazione, ribadendo che gli atteggiamenti come quelli dei tre operai sono «intollerabili». Ma a livello nazionale, giudizi quasi unanimi: quella di ieri è stata salutata come una grande giornata per il mondo del lavoro.
Il reintegro
La sentenza è immediatamente esecutiva. Per i tre operai le porte della fabbrica di San Nicola – chiusesi definitamente a luglio scorso, a seguito della sentenza di primo grado del giudice Amerigo Palma – torneranno ad aprirsi subito. Già oggi sarà inviata all’azienda la richiesta dell’adempimento. Il reintegro è totale. I tre torneranno sulle linee di produzione.
Le motivazioni del Collegio dei giudici, composto dal presidente Pio Ferrone e dai consiglieri Maura Stassano e Caterina Marotta, non sono ancora note.
«A nostro avviso – spiega il legale del sindacato, Lina Grosso – viene completamente ribaltato il giudizio di primo grado che, pur rispettandolo, ci ha lasciato forti perplessità. Una sentenza che ci è sembrata non basata sul rigido accertamento dei fatti. Il giudice ha trascurato molte delle importanti prove che avevamo presentato: dagli ulteriori testi che avevamo chiesto di ascoltare, alle prove fotografiche. Portando avanti delle tesi che non hanno tenuto conto di ciò che era sotto gli occhi di tutti».
Tra la nuova documentazione acquisita agli atti dalla Corte d’Appello di Potenza e che, evidentemente, hanno contribuito a fondare la sentenza, anche foto, registrazioni, tabulati telefonici e anche alcuni articoli del “Quotidiano della Basilicata”. Due elementi, fra tutti, spiccano per importanza: un sms, inviato sul cellulare di Barozzino, che settimane prima avvisava l’operaio di stare attento al gestore operativo della fabbrica che poi avrebbe firmato il provvedimento. E il tabulato telefonico provante che lo stesso operaio non si trovava sul luogo dei fatti all’ora contesta dall’azienda. Va precisato che la Corte di Appello si è espressa sull’articolo ex 28, ovvero sulla condotta antisindacale da parte della Sata spa.
Il contesto politico
La Corte «ha riconosciuto le ragioni della Fiom contro l’azienda per condotta antisindacale», spiega il leader della categoria regionale, Emanuele De Nicola. «Un giudizio che quindi parte da un presupposto: i licenziamenti hanno avuto natura politica. E che rientrano nella strategia generale della Fiat di isolare e fare fuori la Fiom dagli stabilimenti. Quello che sta accadendo a Pomigliano è gravissimo, mentre il Lingotto prova a spostare l’attenzione da quelli che sono i veri problemi da affrontare, cioè il piano industriale», ricorda ancora il segretario.
«E’ impensabile che il più grande sindacato dei metalmeccanici non abbia alcuna rappresentanza all’interno degli stabilimenti, perché non ha firmato gli accordi di Pomigliano e Torino. Questo non può essere. E’ una fatto contrario agli stessi principi di democrazia, e alla Costituzione. E’ come dire che all’interno delle fabbriche vengono riconosciuti i soli sindacati che concordano con Fiat. Così come non si può immaginare una fabbrica senza il diritto di sciopero. Fatti che ricordano gli anni bui del fascismo».
«Questa sentenza ci dà più coraggio»: Di Palma – della segreteria nazionale – concorda con la lettura politica. La cartina di tornasole sarà lo sciopero dei metalmeccanici della Cgil in programma il prossimo 9 marzo .
Le minacce agli operai e la battaglia della Fiom
Nuova ferma condanna alla minacce e alle gravi ritorsioni denunciate da alcuni operai di Melfi contro delegati e iscritti Fiom. Il sindacato annuncia che andrà avanti con gli strumenti legali per ripristinare le normali regole democratiche all’interno dello stabilimento, a partire dal diritto alla rappresentanza.
Il messaggio agli altri sindacati
«Mi auguro che questa sentenza faccia riflettere anche Cisl e Uil», commenta a caldo il segretario generale della Cgil di Basilicata, Alessandro Genovesi.
«I rapporti con Fiat non possono finire sempre in una sorta di prova muscolare. E Fim e Uilm farebbero bene a pensarci seriamente», ammonisce il segretario che aggiunge : «prima che – come nel racconto di Brecht – a difenderli non rimanga più nessuno». Ma il segretario della Uilm nazionale, Rocco Palombella, non se la tiene e subito dopo replica: «Prendo atto della sentenza della Corte d’Appello di Potenza e del fatto che la Fiat presenterà ricorso in Cassazione, ma per la Fiom è una sconfitta». Un sindacato «come quello dei metalmeccanici della Cgil – aggiunge – è riuscito a far licenziare tre lavoratori e dopo due anni grida alla vittoria per essere riuscita a farli riassumere. Se questo è vincere».
I ricorsi individuali
Ma la battaglia di Barozzino, Lamorte e Pignatelli non finisce qui.
A breve sono fissate le udienze per i ricorsi individuali contro i licenziamenti (articolo 18) dei tre lavoratori. Sarà deciso se riconoscere o meno le mensilità non percepite dai tre operai a partire dallo scorso luglio. Ed è possibile che i lavoratori facciano richiesta di un risarcimento per il danno subito. La stessa Fiom – come annunciato dal segretario nazionale, Ladini – sta valutando la possibilità di chiedere un risarcimento per il danno d’immagine subito.
Le reazioni dei tre operai
A rompere gli indugi è Marco Pignatelli, il più timido dei tre, il “soldato semplice”, così come l’hanno soprannominato, perché, a differenza degli altri due, non è delegato ma solo un iscritto Fiom. «Non ci sono parole per descrivere quanto sia contento. Questa è la nostra vittoria, della Fiom Cgil e della democrazia. Perché – aggiunge – in tutto questo tempo non ho fatto altro che pensare: ma com’è possibile essere licenziati per uno sciopero in un Paese democratico?».
Antonio Lamorte, che negli ultimi mesi ha affrontato un periodo particolarmente difficile, a stento trattiene l’emozione. Le sue parole sono di ringraziamento a tutti coloro che in più di anno e mezzo hanno sostenuto la loro battaglia.
«Ora chiediamo solo di tornare al lavoro – aggiunge Giovanni Barozzino – Non vogliamo essere eroi, ma operai normali. Non vogliamo stare sulle prime pagine dei giornali. Sono loro che ci hanno portato sulla stampa. Chiediamo serenità per poter tornare al lavoro. L’auspicio è che in questo Paese si torni a parlare di lavoro».
Mariateresa Labanca
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