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di PAOLA RIZZUTO
Aderisco personalmente e come vice-presidente dell’Unione Italiana Giuristi Cattolici di Cosenza, nonché come vice-presidente dell’Istituto Italo Tunisino per lo Sviluppo Economico e delle Imprese alla pregevole iniziativa promossa dal direttore del “Quotidiano della Calabria”, Matteo Cosenza, perché nel mio duplice ruolo e come donna riconosco in essa la possibilità concreta di restituire alla festa dell’8 marzo la sua reale identità, invitando ancora una volta le Donne a ritrovare un corpo e una ragione collettive, a riscoprire una solidarietà ed una forza, insomma un invito a fare rete, ad avere una voce ed una coscienza comune, motivo per cui l’otto marzo è diventato un simbolo. Ma nei simboli non ci si culla. A seconda di come li si guarda gli anni di cui questa festa è simbolo, infatti, essi possono sembrare preistoria oppure l’altro ieri o addirittura il nostro presente. Matteo Cosenza con l’iniziativa promossa consente di fermare nella memoria storica di ciascuno la sensazione forte che qualcosa di importante è accaduto e per questa via rinvigorisce e rinnova di significato e valore una festa che stava svuotandosi di contenuti e dignità.
Cetta Cacciola poteva e doveva salvarsi. I dettagli raccapriccianti della sua vita infernale precocemente stroncata, ora resi pubblici e visibili: le percosse selvagge fino a romperle una costola, la segregazione e i soprusi subiti, la pistola puntata contro anche per banali diverbi. La breve vita di Cetta Cacciola è stata un escalation di paura, disperazione, sottomissione e tanta, tanta solitudine. Si, solitudine, la stessa cui l’ha condannata anche quella società civile e della legalità a cui lei aveva coraggiosamente chiesto aiuto e a cui aveva affidato il suo legittimo desiderio di riscatto e dignità. Donne che urlano rabbia e dolore, rivendicano sogni d’amore e di vita, dando prova di personalità, testa e cuore e coraggio di mettere in discussione relazioni in cui sono state solo proprietà degli uomini di ‘ndrangheta.
Donne subordinate e omertose, invece, sono quelle “della famiglia”, forza e garanzia di unità nella struttura criminale. Oggi come ieri la storia del Sud insegna che in certi contesti esistono regole non scritte che determinano la vita delle donne limitandone diritti e libertà, fino ad ignorare e calpestare la loro dignità di individuo, regole cementificate su come “tutto deve essere perché è giusto così: la femmina deve obbedire”. D’altra parte se le donne potevano essere mandate al rogo per stregoneria, se nell’Italia postunitaria, quindi, in un’epoca non troppo lontana dai nostri giorni, le donne potevano essere vendute, violentate, picchiate o rinchiuse per oltre vent’anni nelle carceri per il solo sospetto di fiancheggiamento ai briganti, senza alcuna reazione, anzi, essendo tali comportamenti talmente radicati da divenire naturali anche per chi tanto subiva, le donne appunto, che li difendevano nel rispetto dei valori e dei codici non scritti in cui sono cresciute, allora, tutto diventa possibile e concepibile, persino una logica distorta e cattiva. Ricordiamo, nel luglio del 1862, la storia della giovane donna che implora pietà per il brigante Pasquale Recchia di Volturara, detto Pasqualillo, che sta per essere giustiziato per avere invaso il paese e devastato la Casa Comunale. Quella giovane Donna è stata abusata dal brigante, ma da Donna disonorata implora pietà all’Ufficiale e nel tentativo di riprendersi ciò che le era stato tolto con la forza, cerca di fermare l’esecuzione del maschio che l’ha violentata perché non muoia prima di renderle l’onore sposandola con lo stesso prete che è lì presente per rendere l’estrema unzione ai condannati. Episodi di soprusi, fame, fatica in cui le donne diventano il primo bene da sacrificare o da sfruttare.
Le donne del Sud erano anche vittime del nuovo Regno. Urlano dolore gli stupri collettivi subiti da Maria Izzo, Maria Ciaburri e la sedicenne Concetta Biondi e sua madre, avvenuti alla presenza di padri e mariti. Questa la risposta del nuovo Regno alla ribellione dei contadini senza terra. Siamo nell’agosto del 1861, a Pontelandolfo e Casalduni, nel Beneventano, il generale Cialdini come rappresaglia per l’uccisione e lo scempio dei cadaveri di un drappello di bersaglieri organizza un agghiacciante massacro. E basta, dunque, con i falsi storici! Una galleria di ritratti femminili legati all’Unità d’Italia raccontano la storia di donne, le brigantesse, ora vittime, ora carnefici del nuovo Regno. Il Sud postunitario racconta il mito della brigantessa bella e crudele, la “druda” senza cuore di uomini feroci e Marianna Oliviero, detta Ciccilla, moglie di Pietro Monaco, ex sergente borbonico datosi al brigantaggio in Sila, offriva la storia perfetta, di lei i calabresi cantavano: “Lu cori comu na petra mpittu tinia”. E di quei cuori di pietra tenuti in petto aveva paura anche Garibaldi. Oggi, fanno riflettere per la loro attualità le azioni e le parole delle donne del Risorgimento. Donne, madri dell’Unità d’Italia protagoniste di un Risorgimento invisibile ma in cui la presenza femminile ha contribuito in maniera significativa alla realizzazione del progetto indipendentista ed unitario italiano. Ed ora come allora, raffrontando taluni accadimenti storici con la condotta di alcune Donne dei nostri giorni, Giuseppina Pesce, le giovani studentesse Annamaria Molé e Roberta Bellocco, nella scuola da loro frequentata, hanno rivendicato il loro desiderio di essere libere e di poter vivere la propria vita oltre il nome che portano. E così la giovane Sindaca di Rosarno, Elisabetta Tripodi.
La verità è che queste nuove Donne hanno trovato il coraggio di denunciare non solo per il trionfo della verità o della legalità nella lotta dello stato contro l’antistato, ma per Amore di libertà. Ebbene, donne e uomini non sono uguali neppure nella lotta alla ‘ndrangheta. Dall’Unità d’Italia, molti obiettivi sono stati raggiunti, ma ancora la resistenza al cambiamento ostacola il libero sviluppo della personalità delle Donne in condizioni di parità sostanziale ed impedisce la democrazia paritaria pur nel riconoscimento della DIVERSITA’. E’ necessario restituire memoria storica alle figure e alle attività femminili più significative sulla scena del Sud risorgimentale perché la pagina di storia delle brigantesse, spesso dipinta con tinte fosche e buie, in realtà ha rappresentato, a ben vedere, una prima ribellione femminile allo stato di soggezione atavica della donna delle province meridionali d’Italia. Figure femminili dissonanti rispetto alla rappresentazione codificata della femminilità. E allora Cetta resiste ancora e non arresta la sua ribellione ed il suo coraggio di reagire anche dopo la sua morte, se è vero, come è vero che Desirè, figlia di Lea Garofalo, dopo l’uccisione della madre si è costituita parte civile nel processo contro il padre, accusato di averla uccisa. Il desiderio di libertà della nuova Donna del Sud, cuore impavido e fieramente dignitoso, continua a camminare nel tempo e nel mondo, anche in quello della ‘ndrangheta di cui può aiutare a minare le fondamenta. Quella di “Cetta” è stata dunque una scelta di morire per la libertà? No, non convince. Di certo non le è stato lasciato il tempo di vivere quella libertà che aveva scelto. Cetta chiese persino perdono alla madre per la sua scelta secondo quella logica astrusa e gretta che le è stata consegnata, ma per la famiglia, la stessa rimaneva vergogna e disonore. Cetta oggi ci consegna una dura eredità, quella di continuare ad esistere come Donne senza bavaglio e di resistere per Amore che è sangue, futuro e coraggio!

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