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di LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI
Stavo riflettendo sulla credenza medievale che ritiene che la ricorrenza di oggi, San Valentino, sia propizia all’amore dal momento che in questa data gli uccelli, preavvertendo l’arrivo della primavera, incomincerebbero a nidificare e ad accoppiarsi.
A partire da essa intendevo sviluppare alcune considerazioni sull’amore, sulla sua concezione mutevole nel variare dei tempi, sul bisogno di esso, specie nella società attuale.
La cronaca quotidiana, con tragica perentorietà, mi ha imposto di cambiare argomento, per soffermarmi su un episodio che ha insanguinato, ancora una volta, la nostra Calabria.
Maria Concetta Cacciola, di 31 anni, si è tolta la vita bevendo acido muriatico. Aveva descritto nei particolari le attività criminali e gli omicidi compiuti dalla cosca Bellocco di Rosarno, alleata dei Pesce, una delle ‘ndrine più potenti nella nostra regione. Maria Concetta, era figlia di Michele Cacciola, cognato del boss Gregorio Bellocco. Il suicidio è avvenuto nel 20 agosto scorso, ma è di questi giorni la notizia che i carabinieri della compagnia e gli agenti del commissariato di Gioia Tauro hanno arrestato i suoi genitori, Michele, di 54 anni, Anna Rosalba Lazzaro, di 48 anni, e il fratello Giuseppe, con l’accusa di maltrattamenti in famiglia, violenze e minacce per costringerla a ritrattare le sue confessioni.
Maria Concetta era sposata con Salvatore Figliuzzi, ancora in carcere a scontare una condanna a otto anni per associazione mafiosa. Dal matrimonio sono nati tre figli che attualmente hanno 16, 12 e 7 anni. La donna aveva deciso di iniziare la collaborazione con la giustizia dopo aver intuito che i suoi genitori avevano sospettato la sua relazione extraconiugale con Pasquale Improta che durava da circa due anni. Sappiamo che nelle famiglie ‘ndranghetiste il tradimento viene ritenuto ancora oggi un’infamità che va lavata con il sangue. Dopo la decisione di collaborare, Maria Concetta aveva incontrato i suoi genitori nella località protetta dove era stata trasferita. Anche in quell’occasione il padre e la madre hanno cercato in tutti i modi di farla desistere dal fare altre confessioni sulla famiglia. Era stato preparato con l’aiuto di un avvocato e senza che la collaboratrice ne fosse al corrente, un memoriale che Maria Concetta avrebbe dovuto firmare nel quale si sosteneva che le affermazioni fatte dalla donna ai carabinieri erano tutte false ed estorte con la forza. Era stata costretta anche a registrare un audio nel quale confermava che le cose dichiarate ai magistrati erano false. Nonostante fosse stata già ammessa al programma di protezione, nell’agosto scorso la donna aveva deciso di ritornare a Rosarno, probabilmente per riprendersi i suoi figli. Due giorni dopo il suo rientro si è chiusa in bagno e si è uccisa ingerendo acido muriatico.
Si dice spesso e quasi sempre con un’enfasi non priva di retorica, che in Calabria la famiglia costituisce un valore assoluto, irrinunciabile. In parte è vero, ma occorrerebbe verificare il costo umano che le persone sono chiamate a pagare per la sua vigenza.
Maria Concetta Cacciola si era sposata a 14 anni, a 15 aveva avuto il primo figlio. Picchiata al punto da subire fratture osse che le erano state curate da un medico compiacente, non si era potuta separare dal marito perché il proprio padre le aveva puntato la pistola alla tempia dicendo: «Questo è il tuo matrimonio e te lo tieni per tutta la vita». Dopo l’inizio della sua collaborazione con la giustizia, era stata ammessa al programma di protezione ma nell’agosto scorso la donna aveva deciso di ritornare a Rosarno probabilmente per riprendere i suoi figli. Due giorni dopo il suo rientro si è chiusa in bagno e si è uccisa ingerendo acido muriatico.
Nell’operazione di questi giorni, denominata “Califfo”, i carabinieri del Comando provinciale di Reggio Calabria, hanno fermato 11 persone, tutte vicine al clan Pesce.
La Magistratura accusa i familiari della donna di averla resa oggetto di una pesante, continua violenza fisica e psicologica. Secondo l’ordinanza di custodia cautelare, redatta dal Gip di Palmi: «Se le pagine del processo che saranno a breve esaminate non fotografassero una realtà brutale e soffocante, si potrebbe credere di leggere l’appassionante scenografia di un film nella quale una giovane donna di soli 31 anni, madre di tre figli e costretta a vivere una vita che non le appartiene, decide in un anonimo pomeriggio di fine estate di togliersi la vita ingerendo acido muriatico, nella disperata illusione di poter riacquistare la tanto sognata libertà».
Si vedrà in sede giudiziaria se tali accuse sono fondate e sorrette da prove inconfutabili o meno, ciò che è indubbio è la violenza che la vita, l’ambiente in cui Maria Concetta Cacciola è cresciuta, la mentalità – la cultura – tradizionale della nostra Calabria le ha inflitto, devastandole l’esistenza sino a distruggerla.
Se vogliamo chiamarlo così, anche questo è amore: del buon nome della famiglia, dell’onore, del rispetto della parola data, dell’indissolubilità dei legami, e così via, ma occorrerà pur domandarsi che razza di amore è questo, così intriso di violenza e che apporta essenzialmente devastazione e morte.
Sarebbe il caso, forse, di percorrere un itinerario radicalmente diverso, mutando della nostra cultura tradizionale tutti gli aspetti che portano una violenza gratuita, del tutto irredimibile.
Perderà molto la retorica, limacciosa, della Calabria, ma si illuminerà molto una Calabria più vera, più umanamente vivibile.
Riflettendo sulla vicenda di Maria Concetta Cacciola, Giuseppina Pesce e Lea Garofalo, Matteo Cosenza, in un editoriale del 10 febbraio, ha notato: «Se bisognava stare dalla parte di qualcuno non bisognava avere dubbi: bisognava stare dalla parte dei più deboli. E i più deboli erano quelle donne che, a costo di un travaglio tremendo, alla fine avevano deciso di rompere con le loro famiglie e di scegliere la strada della legalità e della giustizia pagando per questo due volte: trovando la morte o minacciate la vita loro e dei loro figli, e infilate con cinica perfidia in un vortice più grande della loro fragilità. Si è invocato il garantismo, ma qui bisognava garantire le persone meno garantite, quelle che con il loro coraggio avevano imboccato un cammino di redenzione anche a costo della fine più atroce».
Proprio per questo, Cosenza sottolinea con forza: «soprattutto occorre uno sforzo collettivo dei calabresi onesti (quanti sono? la maggioranza? una minoranza?) che devono capire che la loro azione quotidiana (in primo luogo il rispetto delle regole), insieme con l’azione dello Stato, può cambiare le cose. Devono farlo per sé ma soprattutto per i giovani che hanno diritto ad un futuro diverso in questa loro meravigliosa terra. Perché il destino di ragazzi e delle ragazze deve essere così tragicamente legato all’ambiente e al luogo di nascita? Che futuro diverso dal diventare ‘ndranghetista può avere uno che, nato in una famiglia di ‘ndrangheta e in un ambiente tollerante o complice, succhia prepotenza e illegalità come un latte materno e non riesce neanche a vedere un mondo diverso fatto di convivenza civile, di tolleranza, di rispetto, di felicità? Nascono in ambienti tristi, vivono infelici anche perché la morte dispensata senza pietà è un boomerang sempre in movimento, ed hanno un futuro amarissimo». Egli, infine, osserva: «hanno pagato un prezzo altissimo, ma lo pagheranno ancora di più se saranno dimenticate e il loro esempio non diventerà un patrimonio collettivo che rigenera in bene e felicità le azioni della gente di questa terra».
A tale lucido articolo ha fatto seguito un ampio dibattito.
Condivido totalmente la prospettiva di Matteo Cosenza, il suo “sogno” di una Calabria radicalmente diversa.
Può essere utopico pensare ciò, ma ogni tanto, come mi hanno scritto recentemente, un po’ di utopia è necessaria.
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