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POTENZA – «Appare assolutamente impossibile che chi ebbe ad eseguire i suddetti lavori non si sia reso conto della presenza di un cadavere». Ed ancora è «assolutamente impossibile credere che per tutti questi anni, nessuno si sia accorto della presenza di un cadavere nel sottotetto della chiesa Santissima Trinità». E’ uno dei passaggi più forti della sentenza del gup Elisabetta Bocassini con cui condanna Danilo Restivo a trent’anni per l’omicidio di Elisa Claps. Le motivazioni sono state depositate soltanto giovedì e il gup si esprime senza giri di parole per dire che qualcuno sapeva, e da tempo, che nel sottotetto della chiesa c’era il corpo di Elisa, ben prima il suo ritrovamento.

– https://www.ilquotidianodellabasilicata.it/files/SENTENZA_RESTIVO.pdf990000]SCARICA LA SENTENZA –
«Ciò che attira l’attenzione è la presenza sul posto ed in prossimità del cadavere (…) di un chiodo passante in una delle perline a cui erano ancorate le tegole dell’apertura praticata sulla falda del tetto in corrispondenza del detto cadavere; chiodo quest’ultimo tipicamente utilizzato dagli operai per appendere loro indumenti personali in occasione di lavori edili – scrive il Gup – Si tratta, in sostanza, di elementi attestanti la presenza di lavori edili all’interno del sottotetto, vuoi anche solo per effettuare la indicata apertura». «Va detto, ancora – sottolinea – che le anomale circostanze di rinvenimento del cadavere di Claps Elisa, tanto tempo dopo i fatti e nonostante pregressi lavori di ristrutturazione, sono divenute oggetto di specifica indagine anche da parte del pm, il cui esito, per quanto rilevabile in atti, non ha fatto emergere elementi di prova significativi». «Tuttavia – aggiunge – risulta acquisita una circostanza di sicuro valore indiziante e idonea a confermare il sospetto di condotte omertose di cui innanzi; la stessa attiene alla possibile scoperta del cadavere di Claps Elisa già prima del 17 marzo del 2010». Sono le dichiarazioni di Don Vagno il viceparroco della Trinità e delle donne delle pulizie. Sapevano e hanno taciuto, come tanti altri, per paura o sottovalutazione.
Poi c’è chi ha inquinato le prove come i familiari di Danilo Restivo, che avrebbero avuto un ruolo centrale in tutta la vicenda, di totale copertura. Il gup parla di «condotte di inquinamento probatorio imputabili a familiari e terzi». Tantissimi gli esempi riportati nella sentenza come quando «si rifiutavano di consegnare gli abiti indossati dal Restivo il giorno in cui era scomparsa Claps Elisa e gli stessi, peraltro, venivano immediatamente lavati dalla madre del Restivo», o in occasione della perquisizione nella loro abitazione («l’imputato, su consiglio della madre ed incurante di tutto quanto stava avvenendo, si recava in cucina e pranzava; nei giorni seguenti, poi, i predetti genitori imponevano al figlio di uscire di casa solo per andare a lavoro e dopo due mesi lo facevano trasferire, come detto, in Gran Bretagna»). La famiglia «lo faceva trasferire a Torino, a Rimini, a Trapani, poi di nuovo a Potenza per un breve periodo, ed, infine, in Gran Bretagna». «Allo stesso modo i predetti familiari – scrive il gup – nel periodo in cui le loro utenze telefoniche venivano sottoposte a controllo, mantenevano sempre il massimo riserbo nelle loro 100 conversazioni, risultate tutte estremamente concise; oltre ad aver fatto ricorso, per diverso tempo, all’uso di cabine telefoniche». «Particolarmente significativa nei sensi indicati risulta la conversazione intercorsa tra Restivo Danilo ed il padre il giorno 15 settembre 1993, ovvero due giorni dopo l’audizione dello stesso Restivo Danilo e dei suoi famigliari presso la Questura di Potenza e tre giorni dopo la scomparsa di Claps Elisa», sottolina il Gup. «In detta conversazione Restivo Danilo contattava il padre che si trovava a lavoro presso la biblioteca nazionale – si legge nella sentenza – per chiedergli se poteva indossare la camicia di jeans (si ricorda che il giorno della scomparsa di Elisa Restivo indossava una camicia di jeans) ed Il padre gli chiedeva a «quale» camicia si riferisse; l’imputato rispondeva dicendo testualmente «quella la»; il genitore insisteva ancora dicendo «quale quella là?». Solo a quel punto il Restivo Danilo, insospettito dalle risposte del padre, chiedeva se poteva parlare ed il Restivo Maurizio rispondeva di no, poi lo invitava ad indossare la camicia che trovava; indi, la conversazione veniva portata su altri argomenti». «Analoga condotta del Restivo Maurizio, emerge nel corso della conversazione da lui tenuta con la figlia Anna prima che la stessa si recasse in Questura (…) – scrive ancora la Boccassini – In tale circostanza, infatti, il Restivo Maurizio, invitava la figlia a riflettere bene prima di rispondere (“conta fino a dieci»), a non agitarsi ad essere precisa e puntuale, a non arrabbiarsi e a dare risposte concise (“si e no”),senza andare al di là di quanto richiestole».

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