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«A quel cazzone gli hanno trovato un biglietto, mica mio cognato! Arresteranno a tutti a Rosarno!…Associazione!». A parlare così, a fine ottobre 2011, è Saverio Marafioti, uno dei fermati dell’operazione di oggi contro la cosca Pesce, riferendosi ad un «pizzino» sequestrato in carcere al boss Francesco Pesce, di 34 anni, detto «testuni» arrestato in un bunker il 9 agosto 2011 dopo un anno e mezzo di latitanza. Nel biglietto erano contenute quattro direttive. Nella prima c’erano alcuni nomi: «Rocco Messina, Pino Rospo, Muzzupappa Ninaredo, Franco Tocco, Danilo, Paolo Danilo, fiore per mio fratello». Con il messaggio, secondo gli investigatori, Francesco Pesce accreditava dal punto di vista criminale l’unico maschio libero della sua famiglia, il fratello Giuseppe, latitante dal 2010, al quale cedeva il comando della cosca (“fiore per mio fratello»), affiancandogli sei fidatissimi, tutti accomunati da legami di parentela o storica amicizia a Francesco Pesce, identificati in Rocco Messina, Giuseppe Alviano detto «u rospu»; Francescantonio Muzzupappa; Francesco Antonio Tocco; Danilo D’Amico e Paolo Daniele. Veniva poi disposto (“biase soldi polacca ass. fortug.“) che un uomo (“Biase») consegnasse ad una donna straniera (“polacca») del denaro. La mancata indicazione della cifra, per gli investigatori sta a significare che il riconoscimento era prestabilito e continuo nel tempo. L’importo doveva essere stornato dagli assegni di una società riconducibile a Fortugno (“ass. fortugn.“). I tre sono stati identificati in Biagio Delmiro, Camelia Costin (che non è non destinataria di misura restrittiva) e Domenico Fortugno. La terza indicazione (“geometra luca santino») riguardava l’affiliazione (“santino») di un giovane, Giovanni Luca Berrica. La quarta era «saverio tuo cognato i 7 di peppe rao li da a me veditela tu per questo digli queste cose». Una cospicua somma di denaro (“i 7“), normalmente introitata nella cassa della cosca tramite «peppe rao», da quel momento, doveva essere destinata al nucleo familiare del boss (“li da a me»). I soggetti chiamati in causa sono stati identificati in Saverio Marafioti e Giuseppe Rao. Il boss affidava il compito di notificare le disposizioni da lui scritte a un «saverio tuo cognato», che per i carabinieri Saverio Marafioti, cognato di Antonio Pronestì. Le indagini hanno permesso di accertare che Marafioti aveva svolto lavori di costruzione e ristrutturazione dei bunker usati dagli affiliati ed al quale lo stesso Francesco Pesce aveva affidato i lavori di ristrutturazione della propria abitazione. Il ruolo di Marafioti come un uomo fidato dei Pesce è stato sottolineato anche dalla collaboratrice Giuseppina Pesce, figlia del boss Salvatore, e dalla testimone Maria Concetta Cacciola che hanno reso dichiarazioni convergenti anche se riferite ad un arco temporale diverso.
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