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di SARA LORUSSO
POTENZA – «Non è che ci pensi molto su, ti dai da fare e basta», un po’ per senso del dovere, un po’ perchè per scegliere quel mestiere devi essere così. E anche se poi alle tragedie ci si fa il callo, al dolore «quello no, e meno male». Hanno lavorato tutta la notte, fino alla sera successiva, quelli dell’ottavo reparto mobile di Firenze della Polizia di Stato. Alza le spalle Giancarlo Carioscia, in polizia da anni, a Firenze da tredici, da quando è partito da Pisticci, superato il concorso. «Ma no, ma quali eroi, facciamo il nostro lavoro». Che poi è vero, ma talvolta è in fondo la stessa cosa. Un po’ stupito per la notorietà improvvisa, da casa devono averlo contattato in tanti.
Sulla foto in prima pagina de La Repubblica ieri è caduto più di qualche occhio, a corredo com’era del reportage di Adriano Sofri, primo pezzo dalla fine della pena. E fermandosi a guardare quel poliziotto che stringe un bimbo in una coperta, a Pisticci Scalo, diversi devono aver riconosciuto quell’uomo di 42 anni, che adesso rappresenta un po’ il Paese, la sua parte migliore, quella che si è chiesta che cosa fare per aiutare i naufraghi della Costa Concordia. La nave, da ieri, è lentamente in movimento, con il mare mosso che rende ancora più difficile le ricerche dei superstiti. Sei i morti accertati, decine i dispersi, ancora tanta confusione sulle persone mancanti all’appello, sui nomi di chi – turista o lavoratore – era sulla crociera del terrore, compresi cinque lucani.
«Gli eroi? Lo sono anche i vigili del fuoco, e i sommozzatori che ancora non mollano», cercando di dare un senso alle sempre più deboli speranze di trovare qualche sopravvissuto, mentre si lavora a mettere in sicurezza la nave e la scogliera dell’Argentario. Imperdonabile se il carburante macchiasse i fondali preziosi dell’isola del Giglio.
Eroi normali, però, pure loro, questi poliziotti che hanno accolto i naufraghi intirizziti e offerto assistenza. All’ottavo della mobile fiorentina, il reparto guidato dal dottor Azzarone, prestano servizio anche Enzo Tito, partito da Anzi, e Antonio Camaldo, originario di Lagonegro. Lucani trapiantati altrove, a darsi da fare come altri nell’emergenza. Faticatori, come si dice da queste parti, «umili, buoni. Noi lucani siamo così».
Poliziotti dell’ordine pubblico, sono abituati a gestire grandi numeri. Sono stati a L’Aquila, hanno vissuto Lampedusa, da sabato scorso hanno presidiato Porto Santo Stefano, l’attracco al continente dove si riversavano a gruppi anche di novecento i sopravvissuti della Concordia. Chiamati alle tre del mattino, tutta una tirata fino alle 19, poche pause e poco sonno. «Neanche il freddo lo senti più», la tensione aiuta a restare lucidi, ché bisogna darsi da fare per aiutare i cittadini per cui sono «al servizio». Raccontano del «terrore» che hanno visto sui volti. I bambini piangevano, ma forse non capivano fino in fondo. Raccontano della «grande solidarietà» che si è fatta largo nella popolazione del posto, della gente che ha fatto a gara ad offrire ripari e cibo. E così hanno accompagnato nelle tende della protezione civile, ai punti di medicazione, hanno raccolto cappotti e maglioni. La chiesa, a Porto Santo Stefano, è stata il riparo sicuro, anche se il freddo era atroce sulla pelle bagnata dei naufraghi.
Il bambino della foto? Ne ha presi diversi Giancarlo, per strapparli al gelo. «Ho un figlio piccolo anche io».
Poi da lì, a gruppi, piano piano, i naufraghi hanno cominciato a dirigersi verso Grosseto, Roma, verso casa. Loro, quelli dell’ottavo della mobile, sono rimasti laggiù, a darsi il cambio. E mentre le ricerche continuano e la nave dorme ancora sugli scogli con la pancia aperta, resta una fotografia a raccontare di uno tra tanti eroi normali.
s.lorusso@luedi.it

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