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«MI DISSE che i servizi segreti avevano avuto parte anche in diversi attentati, nominando l’autobomba usata nell’omicidio del giudice Borsellino». In gergo la chiamano testimonianza de relato. Uno dice cose per averle apprese da un altro. Se poi quest’ultimo dovesse dire di averle apprese da un altro ancora, toccherebbe ripercorrere quei passaggi all’indietro cercando chi ha avuto conoscenza diretta dei fatti perchè era lì presente, o li messi in moto lui stesso. Nelle dichiarazioni dell’ultimo pentito dell’antimafia di Potenza si affacciano persino i grandi misteri italiani degli ultimi vent’anni, nomi e storie ancora avvolte dal giallo su cui prosegue il lavoro degli inquirenti di almeno due diverse procure siciliane.
La fonte di Antonio Cossidente, il padrino della calciopolì rossoblù reo confesso anche del misterioso omicidio dei coniugi Gianfredi, sarebbe quello stesso agente del Sisde che è finito al centro dell’inchiesta “Toghe lucane bis” dei pm di Catanzaro, sul complotto tra alti magistrati e militari infedeli per delegittimare il pm Henry John Woodcock e i suoi colleghi più scomodi all’estabilishment politico-imprenditoriale della “Lucania felix”.
Nicola Cervone, più conosciuto come Nikeo, aveva agganciato quel piccolo boss di provincia nel 2003, senza immaginare quello che gli sarebbe accaduto di lì a oco. Andando per ordine: Cossidente gli consegna un cd rom pieno di dati top ecret trafugato da un ufficio del comando provinciale dell’Arma. Cervone lo onsegna ai suoi superiori che si rivolgono a un magistrato della Dda di Potenza. Altri agenti del Sisde e poliziotti della Squadra mobile gli perquisiscono casa trovano la cassetta con la registrazione di un colloquio con quel boss semisconosciuto. La procura porta una copia della trascrizione nel fascicolo di un’inchiesta contro i clan del Vulture Melfese. Il Tribunale, com’era prevedibile, non l’ammette come prova, ma da quel momento esatto l’agente in pratica è “bruciato”. Negli ambienti della mala comincia a circolare il suo nome: chi sia, che cosa faccia, e il fatto che sia stato scaricato dai suoi stessi superiori. Cervone si sente in pericolo e abbandona i servizi segreti per un posto da cancelliere nel Tribunale di Melfi da dove emergerà di nuovo per la vicenda del “corvo” di Potenza, quello che amava firmarsi «signor Sicofante».
Sette anni dopo quel fatidico 2003 Cossidente ha iniziato a collaborare con la giustizia e ha spiegato per filo e per segno come sarebbero andate le cose. «Mi disse di essere un agente segreto e di collaborare con la Procura di Potenza». E’ quanto ha dichiarato l’ultimo boss dei basilischi il 4 novembre dell’anno scorso. Parole sulle quali prosegue la caccia di riscontri da parte degli investigatori dell’Arma e della Polizia. «Mi propose di aiutarmi chiedendomi in cambio delle informazione. Voleva farmi conoscere il suo superiore che di nome faceva Mauro, che lui chiamava il capocentro». Cervone avrebbe fatto riferimento a fondi a disposizione per ricompensare gli informatori dell’intelligence e telefoni criptati per le comunicazioni. «Mi propose anche di farmi conoscere delle persone in Sicilia». Ed è qui che il discorso arriva ai vertici delle istituzioni. «Mi disse che aveva casa a Maratea e che era amico di Angelo Sanza». Il plurideputato originario di Potenza, sottosegretario con delega speciale proprio ai servizi nel 1988 per il governo di Ciriaco De Mita. «Più
volte mi ha assicurato il suo impegno per aiutarmi soprattutto nei processi». Infine la rivelazione sul ruolo dei servizi nella strage di via D’Amelio, undici anni prima, il 19 luglio 1992, in cui morirono Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta, Agostino Catalano, Eddie Walter Cosina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina ed Emanuela Loi. «Quando gli obiettai che i giudici avrebbero scoperto la nostra collaborazione lui mi disse che potevano manovrare la magistratura, anzi mi disse di non meravigliarmi dei suoi rapporti con me perchè era una cosa normale che i servizi segreti avessero rapporti anche con i criminali e con la mafia». Più che semplici coincidenze, ci sono almeno un paio di circostanze che meriterebbero di essere approfondite. Infatti tra i superiori di Cervone infatti un «Mauro» ci sarebbe stato davvero, che altri non è che il
colonnello Mauro Obinu, ex del Ros dei carabinieri poi passato alla guida della divisione del Sisde che si occupava della criminalità organizzata (Roc), lo stesso che è a processo davanti al Tribunale di Palermo assieme all’allora capo del Sisde, il generale Mario Mori, altro Ros, per la mancata cattura di Bernardo Provenzano. Quanto poi al vero capocentro della struttura dei servizi segreti civili del capoluogo lucano si affaccia sulla scena un’altra conoscenza delle ultime inchieste siciliane sulla storia parallela dell’Italia contemporanea: Lorenzo Narracci, già vice capo Sisde a Palermo negli anni delle stragi e braccio destro di Bruno Contrada. Era suo il numero di telefono sul misterioso foglietto che ritrovato sulla montagna dove Giovanni Brusca ha premuto il telecomando che fece brillare il tritolo piazzato sotto l’autostrada Palermo-Capaci che uccise Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Rocco Dicillo, Vito Schifani e Antonio Montinaro. Ed è lui che il pentito che ha riaperto le indagini sulla strage di via D’Amelio, Gaspare Spatuzza, in un primo momento ha riconosciuto come il terzo uomo presente nel garage dove sarebbe stata confezionata l’autobomba, nei verbali del 2008 è scritto così, per
poi ritrattare a distanza di qualche mese, parlando solo di una «certa somiglianza». Spatuzza è l’ex braccio destro dei boss del quartiere Brancaccio di Palermo, i fratelli Graviano, è il killer di padre Puglisi, e l’autore del rapimento del piccolo Di Matteo. Quella 127 piena di tritolo dice di averla rubata lui, e per queste dichiarazioni sei persone già condannate all’ergastolo per la strage sono stati rimessi in libertà. La notizia di questi giorni è che gli inquirenti della Procura di Caltanissetta che hanno ripreso in mano quei faldoni vecchi di quasi vent’anni sarebbero intenzionati a chiedere l’archiviazione delle accuse contro Narracci.
Quando Cossidente parla di “Mauro” si confonde o ricorda bene? Cervone gli ha mai detto quelle cose? Nel primo caso voleva forse accreditarsi stuzzicando l’immaginazione del suo nuovo informatore? «Segreto di Stato»: potrebbe dire l’ex agente del Sisde. Oppure il boss della modesta “quinta mafia s’è inventato tutto? Ma se è così a che gioco sta giocando il vecchio capo dei basilischi? Dalla credibilità delle sue dichiarazioni dipendono diverse indagini ancora in corso, e più di qualche processo già approdato davanti al Tribunale di Potenza. E’ proprio questo che stanno ancora cercando di capire gli investigatori. Di sicuro nessuno di loro fino a un anno e mezzo fa poteva immaginare di trovarsi in una situazione così.

Leo Amato

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