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di GIOVANNI RUSSO*
Una categoria, quella dei c.d. giovani, molto ampia ed eterogenea, se nel comune sentire ad essa appartengono generazioni anagraficamente “distanti” tra loro, dai neodiplomati con l’amletico dubbio sulla scelta della facoltà universitaria a chi, sentendo parlare di università ha solo ricordi sempre più sbiaditi, oramai giunto alla soglia dei quaranta anni. Una categoria spesso al centro del dibattito sociale e politico, ma quasi sempre con lo status di destinatario di decisioni e non di “soggetto decidente”. Una categoria che, infine, salvo qualche sporadica eccezione, è spesso vista sotto una luce negativa: non mi riferisco alla famosa definizione di bamboccioni e alle polemiche che ne sono seguite, ma ad un sentimento diffuso secondo il quale quella attuale è una generazione apatica, pigra, sicuramente viziata, per definizione immatura. Non è così. O meglio, non sempre è così. Perché se bisogna riconoscere ed ammettere che molti di noi non hanno lo spirito di sacrificio e di intraprendenza che ha contraddistinto i nostri genitori, che comprare l’ultimo modello di cellulare è più comodo che pagare un affitto, o che un paio di scarpe alla moda garantisce più allegria delle bollette, non si può ignorare che esistono numerose eccezioni, in alcuni contesti talmente cospicue da dover essere considerate, a mio avviso, la regola.
Ci sono giovani, tanti giovani, di cui essere davvero orgogliosi: giovani solo per età ma molto maturi nell’animo. Non vi è nessuno di noi che non abbia espresso la propria opinione sulla precarietà estrema, del lavoro e di conseguenza della vita, e su come combatterla: ma, diciamola tutta, chi è che vive in prima persona questo male della società moderna? I giovani! Ed allora onore al merito ai quei ragazzi e a quelle ragazze sfruttati in moderne fabbriche-pollaio (leggi call center), che vedono quotidianamente sminuire il proprio titolo di studio (non solo laurea, ma anche master e dottorati) a carta straccia quasi limitante ed “impeditiva” (mi scusi, ma per questo genere di lavoro la laurea è “troppo” .), che accettano lavori sottopagati e spesso in nero pur di avere una minima autonomia economica, che sono sempre troppo giovani per accedere a cariche politiche, che tra mille sacrifici e senza alcuna certezza decidono di metter su famiglia (a cui segue il classico commento degli amici: ma come hanno fatto, che coraggio!), che decidono di diventare liberi professionisti o imprenditori in un paese in cui le lobby, i potentati e le rendite di posizione dominano incontrastate (si spera ancora per poco .), che lavorano in uno studio (legale, commerciale, tecnico o simili) 10 ore al giorno ma solo se aprono una partita iva, che vivono in un paese in cui il 61,1% delle aziende (il 70% nel meridione) preferisce la raccomandazione al curriculum, che reggono le università tenendo corsi, lezioni ed esami mentre i figli dei baroni si prendono le cattedre, che decidono di partecipare ai concorsi pubblici entrando in competizione per quei pochissimi posti davvero “pubblici”, che non hanno mai avuto e forse non avranno mai un contratto a tempo indeterminato, che, in altre parole, devono convivere quotidianamente con un concetto sconosciuto ai loro genitori, ovvero la precarietà non come parentesi ma come sistema strutturale della propria vita e della società. Il tutto, è evidente, mai per scelta, ma perché questa è la società lasciataci in eredità, sino ad ora impermeabile a qualsiasi istanza di rinnovamento. Chi di noi, anche se non coinvolto in prima persona, non ha un figlio, un nipote, un fratello o una sorella, un amico, un vicino di casa che è costretto a subire queste condizioni? Ed allora, per una volta, almeno per una volta, bando all’abituale piagnisteo, basta con le critiche ed i lamenti, e riconosciamo i grandi meriti di questi giovani, e prima ancora di queste persone, di cui noi, noi tutti, dobbiamo essere davvero orgogliosi.

*Avvocato in Cosenza

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