6 minuti per la lettura
di MATTEO COSENZA
Se ne va un anno denso di amarezze, arriva un anno carico di apprensioni. In queste condizioni brindare esige uno sforzo imperioso di ottimismo, una virtù che, fortunatamente, è parte della natura umana. E allora, nonostante tutto, auguri di un buon 2012.
Con la caduta del governo Berlusconi siamo ritornati con i piedi per terra e il fumo che vendeva il presidente del Consiglio e che avvolgeva la nostra vita si è diradato facendo emergere la realtà di un paese in ginocchio. Ora si tratta di farlo rialzare sapendo che ci sono seri rischi che al contrario esso finisca steso irrimediabilmente a terra. Se sapessimo con certezza chi sta combattendo contro di noi avremmo almeno la possibilità di armarci con gli strumenti giusti, purtroppo sappiamo solo alcune cose. La prima è che l’Italia, con il suo immane debito pubblico, è un paese vulnerabile. La seconda è che da tempo, nonostante l’ingegnosità dei suoi abitanti, il naturale processo di crescita è bloccato e non dà segni di ripresa. La terza è che forze oscure, soprattutto limitati ambienti finanziari e speculativi internazionali, stanno colpendo la fragile frontiera dell’euro per farla crollare con conseguenze politiche, economiche e sociali rilevanti per il nostro vecchio continente. La Grecia è caduta, l’Italia – dice Monti – stava deviando in quella direzione e, a seguire, l’impalcatura europea, già priva dell’Inghilterra, potrebbe sbriciolarsi come un castello di sabbia asciutta. Con la regia di Giorgio Napolitano e con il contributo dei poteri forti (anche, scrive il Wall Street Journal, la cancelliera Angela Merkel che alle intercettazioni telefoniche di Berlusconi sul suo sedere avrebbe replicato con una telefonata irrituale al nostro presidente della Repubblica per chiedergli di dare un calcio nel sedere al poco Cavaliere di Arcore) l’Italia si è data un governo tecnico per fronteggiare la drammatica emergenza. Monti, che dimostra ogni giorno che passa di non essere un personaggio da poco, ha dosato bene le mosse in questi giorni. Con la conferenza stampa dell’altro giorno ha fatto gli auguri agli italiani, dopo averli salassati, con l’annuncio che dopo Capodanno sarà avviata la fase della crescita. Almeno ci lascia trascorrere la notte di San Silvestro con la speranza che dal suo cilindro possano uscire misure tali da farci davvero imboccare la via della ripresa. Intanto il paese è letteralmente in ginocchio o, per restare al vocabolario berlusconiano, con il culo per terra, e l’aria mesta di questi giorni, solitamente festosi, ci ricorda che tutti sono preoccupati mentre tantissimi sono già colpiti dai morsi della crisi, moltissimi sono stabilmente nella fascia della povertà e intere generazioni sono senza presente e senza futuro. Tutto ci dice che l’anno che verrà sarà terribile. Carlo De Benedetti, un imprenditore-editore di riconosciuto equilibrio, ha scritto nei giorni scorsi per il Sole 24 Ore un articolo inquietante per i ricordi storici e per lo scenario che ha dipinto. Ha rammentato a chi l’avesse dimenticato che ancora una volta nell’arco di un secolo lo spettro della recessione lambisce la grande Germania. Negli anni ‘20 con la Repubblica di Weimar – un tentativo avanzato di società liberale -, attraverso errori e contraddizioni si aprì una crisi drammatica. E nei primi anni ‘30 la decisione di non svalutare il marco aprì le porte al nazismo. Colpisce molto la sua analisi anche perché la famiglia De Benedetti visse sulla propria pelle la tragedia del nazismo e delle persecuzioni. La storia è fatta di corsi e ricorsi, e non si può affermare con certezza che l’Europa sia vaccinata definitivamente dal male sottile dell’autoritarismo. Si sa che i disastri economici e sociali innestano processi imprevedibili e spesso tragici. Tante volte è accaduto che dallo scoppio di crisi profonde sia scaturita quasi naturalmente la tentazione della soluzione ritenuta più facile, quella della via più breve, vale a dire il consegnarsi all’uomo forte. L’augurio davvero sentito è che questo scenario sia frutto esclusivo di una passeggera caduta nel pessimismo. Davanti a noi abbiamo nell’immediato sacrifici inevitabili, che si deve pretendere siano davvero equi, e la speranza che i provvedimenti per la crescita siano capaci di innescarla sul serio, ma al tempo stesso non dobbiamo dimenticare l’urgenza di una nuova fase politica. A questo proposito il cambiamento deve essere profondo e radicale e deve fondarsi su una rinnovata partecipazione della gente alla politica per ritrovare nel dialogo, nel confronto e nello scontro le ragioni per debellare lo smarrimento delle coscienze, il sentimento diffuso di impotenza e la convinzione che non si possa tentare nulla di diverso. Un’alternativa allo stato di cose esistenti deve esserci, c’è sicuramente, e non la si vede perché c’è poco impegno a cercarla. Occorre partire da noi, dal nostro particolare, dal territorio dove viviamo, dagli ambienti che frequentiamo. All’inizio dicevamo che gli italiani hanno poco da festeggiare, i calabresi ne hanno ancora di meno. Alle nostre spalle c’è un anno inutile per la Calabria al di là dei roboanti annunci di faville e miracoli, semmai l’aria è diventata più cupa e i difetti antichi si sono accentuati. Quello del trasformismo, per esempio. Per avere un calabrese al governo (di prevedibile vita breve) è stato necessario che Aurelio Misiti, eletto con i voti di Idv, sia volato sull’altare di Berlusconi, ma anche nel piccolo la vecchia malattia è diffusa: tralasciando il caso di Dorina Bianchi a Crotone, a Reggio Lamberti Castronuovo, dopo essere stato candidato Pd a sindaco in alternativa a Scopelliti, ha fatto una lista di sostegno al candidato di Scopelliti a sindaco e successivamente è diventato assessore della giunta di centrodestra alla Provincia. Comunque, nulla di nuovo sotto il sole, la storia del Mezzogiorno è segnata da questi cambi di casacca. Un anno inutile, si diceva, ma non sotto il segno delle attività contro la la ‘ndrangheta. Soprattutto a Reggio l’azione è stata vasta, profonda, incessante. Sicuramente vi è un grande, non esclusivo, merito del procuratore Giuseppe Pignatone, il quale, però, è sul piede di partenza. Il futuro di questa speranza di legalità è nelle mani di chi deciderà il suo successore. Confidiamo che si scelga per il meglio, perché la variegata cricca che asfissia quella terra è già in attività per rimettere completamente le proprie mani sul potere. Del resto, quella di Reggio è la questione cruciale della Calabria. Da essa dipende anche la sorte del governo regionale. Il governatore Scopelliti, una volta beneficiato dal modello Reggio che egli stesso aveva messo su, ora ne è perseguitato quasi come per una sorta di contrappasso. La sua compagine regionale è serrata come una testuggine romana, ma i colpi all’istituzione con arresti anche eccellenti sono presagi allarmanti. E non è roba da poco quello che si agita attorno alla gestione del Comune di Reggio di questi anni. Ora che a Roma non c’è più il governo amico (Lega permettendo), tutto si fa più difficile. Sullo sfondo c’è un grande vuoto della politica, manca la dialettica anche conflittuale tra chi governa e chi sta all’opposizione, e non emergono figure capaci di far almeno sognare un futuro diverso. Troppo scontato e riturale ricordare che non c’è neanche l’ombra di personalità come Giacomo Mancini, Riccardo Misasi, Fausto Gullo, Cecchino Principe, Antonio Guarasci. Del resto la nostalgia non porta da nessuna parte se non alla constatazione amara che la Calabria non conta nulla al di là del Pollino. Qui intanto si discute delle dimissioni da sindaco di Catanzaro di Michele Traversa, che non ha voluto lasciare il posto di deputato dopo che appena pochi mesi fa aveva chiesto ai suoi concittadini il voto per poterli amministrare. Ieri pare che ci fosse un ripensamento e che dopo tanto clamore le dimissioni potevano essere ritirate, sebbene «per un miracolo». Ma siamo seri! Il tanto contestato Giorgio Bocca scriveva “Aspra Calabria”. Gli bastava cambiare quell’aspra in povera e i conti sarebbero tornati.
COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA