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LA Basilicata può vantare solo pochi pezzi del ricco patrimonio di scritti che Giorgio Bocca ha lasciato con la sua scomparsa. Ma tra le pagine che il grande giornalista ci consegna c’è una dedicata alla fabbrica di Melfi. Era il 1994, l’anno dell’arrivo degli Agnelli in terra lucana. Il “partigiano della parola” – come lo ha definito ieri don Roberto Vignola, il parroco amico di famiglia che ha celebrato le esequie funebri a Milano – a bordo di jet Fiat arriva in quella che una volta era la grande piana verde e gialla tra Melfi e Lavello insieme all’amministratore delegato Maurizio Magnabosco. Quattro pagine del libro “Il sottosopra” edito da Mondadori quello stesso anno raccontano l’idea della fabbrica modello in una terra che qualcosa del genere non l’aveva mai vista. Un quadro dipinto a penna di una realtà contadina che sta per prepararsi all’arrivo della fabbrica più moderna del momento. E chiude con un inquietante interrogativo, oggi più attuale che mai: “Quanti anni durerà questa euforia?”. Ieri in tantissimi hanno voluto salutare per l’ultima volta il grande giornalista. Il Quotidiano ha scelto di omaggiare così una delle più grandi penne italiane.

di GIORGIO BOCCA

MAGNABOSCO è stato di parola, stamattina mi aspetta a Linate con un jet della Fiat. Andiamo a Foggia e poi a Melfi, alla fabbrica nuova, ma l’avvocato Agnelli la chiamerebbe l’officina come ai tempi di suo nonno. «Non aspettarti di incontrare dei torinesi» dice «chi ha preso una laurea Fiat a Torino negli anni Ottanta non ne può prendere una seconda a Melfi nel ‘94, perché uno con una testa fordista, abituato a ricevere gli ordini dall’alto e ad avere pochissime responsabilità, a Melfi non può funzionare, la musica è cambiata. Sai, c’erano molte ragioni per fare la fabbrica a Melfi a partire da quella che doveva essere nuova di sana pianta e in Lucania non c’era mai stata una fabbrica d’auto, non c’erano né tradizioni né vecchio pensiero da conservare. Non una fabbrica di servi, ma di responsabili e a Melfi le responsabilità ci sono, un capo non risponde più di un milione ma di cento».
Sfioriamo nella discesa le Murge, passiamo sul granaio d’Italia, la piana di Foggia, atterriamo in un aeroporto deserto dove potrebbero starnazzare le galline, ci sono solo gli aerei Fiat che vanno e vengono, solo un autista Fiat ad aspettarci. Melfi deve essere quelle case, quei campanili in cima a quella lontana collina, andiamo verso la piramide scura del Vulture, un incanto meridionale di quindici anni fa che non ho ancora dimenticato, il laghetto con le barche e le palazzine bianche, fatte per una regina austriaca sposa a un Borbone, il vino denso e profumato e l’acqua minerale di Monticchio che usciva anche da un rubinetto della cucina, nel ristorante.
Un miracolo infantile, come la volta che in un hotel di Digione trovai i due rubinetti da cui scendevano un bianco e un rosso di Borgogna. La fabbrica a prato verde come la definisce Magnabosco, ora la circondano spazi giallastri, strade e ferrovie che lo stato doveva sistemare, ma lo stato è lento, deve ancora pagare i soldi che ha stanziato per l’impresa.
Però gli amministratori locali sono stati perentori e irriducibili nella difesa dell’ambiente, i colori dei capannoni ocra, azzurri, gialli, rossi sembrano una fioritura di primavera e le acque sono a circuito chiuso o depurate. Saliamo in direzione dall’ingegner Daniele Bandiera che è di Ferrara, solo, senza vicedirettori, uffici della direzione, mensa della direzione. I suoi collaboratori, i quadri direttivi stanno in fabbrica. Una fabbrica aperta, senza segreti, dai pannelli luminosi sai quanti operai sono entrati, quanti hanno già raggiunto il posto di lavoro, quanti colpi battono le presse, quante auto sono state montate. Poco rumore, le grandi presse sono chiuse nelle loro fodere insonorizzanti, mostruose e docili, capaci di cambiare uno stampo in sei minuti invece che nelle dieci ore di prima.
Per capire che cos’è una fabbrica integrata, devi partire dal luogo in cui i camion scaricano i laminati d’acciaio che arrivano da Taranto o Genova. Il problema è uno solo: il flusso dell’acciaio e delle sue trasformazioni deve essere continuo, non ci sono più separazioni fra lastratura, verniciatura, montaggio del motore, del sistema elettrico, dei sedili, non ci sono corse e ingorghi fra il magazzino e la fabbrica perché il magazzino non c’è, ci sono, incorporati nella fabbrica, nella seconda metà della fabbrica, i fornitori, i due flussi si incontrano a metà strada.
Che cosa siano le Ute o unità tecnologiche elementari, non l’ho capito bene. Dico quel che ho visto a cominciare dalle presse: le grandi macchine che battono i colpi delle carrozzerie, gli operai che verificano se ci sono difetti, un capo che interviene se c’è un problema o sta nel suo ufficio aperto dove ci sono i pannelli con le fotografie dei componenti la Ute e i dati di produzione. I capannoni sono enormi e quasi deserti, i pavimenti lucidi color azzurro. E procedendo sul pulmino (a piedi ci metteresti un giorno) incominci a capire qual è la novità storica di questa fabbrica, il nuovo, ma veramente nuovo, modo di fare l’automobile: finita la dannazione fordista dei tempi e metodi dall’alto, basta con gli uomini asserviti alle macchine, al controllo carcerario dei capi. Non ci sono più carcerieri, ma tecnici che prevengono gli errori più che correggerli, lo chiamano “sistema direzionale a vista”, un lavoro di squadra. Ognuna delle due presse costa cinquantacinque miliardi, gli operai ne sono orgogliosi, delle presse e di tutto, se compreranno una Punto vogliono che sia di Melfi, sono convinti che sia meglio di quelle fatte altrove. A guardare i grandi spazi puliti e rilucenti ti convinci che c’è qualcosa che non quadra in questo paese, magari fossero così gli ospedali, magari lo fosse solo in parte il maggiore ospedale del Sud, il Cardarelli di Napoli. A Melfi la gerarchia dell’officina è passata da sette a cinque livelli eliminando un sacco di controlli intermedi. Una volta il caporeparto, il cavalier “giacchetta nera”, trovava in fabbrica al mattino l’ordine di marcia della direzione: ti diamo tanti uomini per fare tanti pezzi in otto ore di lavoro. Lui solo era il garante. Qui i garanti sono tutti i componenti di una Ute in un sistema flessibile di collettivi, ognuno per il suo tratto ma in un flusso continuo. Che ricordi amari della fabbrica che fu! I rumori assordanti, quelle operaie infagottate in grembiali e calze di lana, gli uomini sporchi e stanchi. A Melfi il lavoro manuale è ridotto al minimo, non si vedono tute sporche di grasso, la tuta amaranto con camicia verde è pulita, nessuno deve più lavorare a braccia alzate, le carrozzerie manovrate da potenti ganasce si inclinano verso l’operaio, le vernici non hanno più solventi velenosi, sono vernici ad acqua e l’ultimo supplizio operaio, la verniciatura degli interni, è stato cancellato, ci pensano i robot dalle braccia dinoccolate e frenetiche. Cose che Ghidella aveva già intuito dieci anni fa ma, meglio non dirlo, Ghidella non è più nel cono della Fiat e Melfi non è più fabbrica di un capo supremo, di Valletta, di Umberto Agnelli, di Ghidella, di Romiti, è la fabbrica del collettivo Fiat, del centro tecnologiche e della direzione produttiva di Mirafiori. Mi pareva di aver capito negli anni della robotizzazione che l’idea fissa degli inventori e degli imprenditori fosse quella di abolire l’operaio, di far scomparire con la classe operaia la lotta di classe. Me lo diceva quasi rapito il vecchio Lazzaroni della DEA, il panettiere passato ai bigliardini elettrici e poi alla più avanzata fabbrica di strumenti robotica. Mi mostrava la sua ultima creatura, un robot che montava una valvola scartando quelle difettose e diceva: «Hai capito, dutur, questo lo puoi tenere in una stanza senza luce e senza riscaldamento e ti lavora notte e giorno, non va mai a pisciare, non si beve mai un cicchetto». Hanno studiato due anni a Torino gli operai di Melfi, due anni, cosa mai vista in Italia. Alla rivoluzione non ci pensano, ma nell’avanzamento ancora ci credono e ci crede anche la scuola locale che per anni ha sfornato solo geometri per la ricostruzione delle zone terremotate e ora si occupa di corsi tecnici. «Quanti anni durerà questa euforia?». Magnabosco è un capo del personale ma con risvolti filosofici: «Non molto, la gente passa dalla pastorizia e dalla disoccupazione alla fabbrica più avanzata del mondo con estrema disinvoltura, come se gliene avessero parlato quando era in culla. E’ rapido il mutamento, ma temo sia rapida anche la noia. Per qualche anno funzionerà, poi vedremo».

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