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di FRANCESCO RENDE
Qui a Bruxelles la pioggia fa meno male. La prima triste constatazione di chi vede la Calabria dall’esterno, come me durante questa mia esperienza lavorativa nel cuore dell’Europa, è la rassegnazione di chi ormai è abituato a tutto: le ultime devastazioni causate dalle precipitazioni stagionali aprono una ferita profonda in chi vive in Calabria, ancor di più se si pensa ai morti ed ai milioni di euro di danni che ogni anno fa il maltempo da Lagonegro a Villa San Giovanni. Un male stagionale, così come stagionali sono le precipitazioni e le piogge che si abbattono sulla nostra regione. Cosa ci permette, quindi, di non essere in grado di affrontare l’ordinario? Per quale strana ragione qualsiasi cosa succeda diventa emergenza? E’ questa una delle più grosse contraddizioni della nostra terra, che rende a noi calabresi, giovani e non, difficile spiegare a tutto il resto d’Italia, d’Europa, del mondo, spiegare perché nonostante tutti gli aiuti e i sussidi ci troviamo ancora in coda ad ogni graduatoria. Lavorare a Bruxelles vuol dire anche questo: dover spiegare l’inspiegabile, dover trovare una ragione valida e plausibile ad un ponte che crolla sotto il peso dell’acqua, in una terra che ancora grida vendetta per i morti del camping “Le Giare” di Soverato e che come ogni inverno deve affrontare “l’emergenza pioggia”. Il bollettino ogni anno parla di paesi inghiottiti dal fango, collegamenti interrotti, morte e devastazione: una regione che si definisca “civile”, una politica realmente al servizio del cittadino, dopo la prima volta avrebbe fatto in modo che tutto questo non fosse mai più accaduto. In Calabria purtroppo tutto questo non accade: la pioggia, nella punta d’Italia, da amica degli agricoltori e benefattrice dei campi diventa nemica del territorio, si trasforma in falce nera che tutto avvolge e porta via con sé. Perché, però, nel resto del mondo non succede? Perché paesi come il Belgio, costantemente falciati dalle precipitazioni atmosferiche, non convivono con emergenze di questo tipo? Cosa ci impedisce di affrontare la normalità? E’ questa la difficoltà più grande: trovare un perché. Parli con un ragazzo di Sarajevo e ti dice che, a pochi anni dalla conclusione da una delle guerre più sanguinose degli ultimi anni, loro sono pronti ad entrare in Europa con una economia salda, che gli permetterebbe di posizionarsi ben fuori dall’obiettivo convergenza (gli aiuti destinati alle regioni che hanno bisogno di mettersi al pari con l’Europa, che la Calabria spreca da anni senza ottenere un benché minimo risultato), mentre tu pensi che nei tuoi paesi ai lati del marciapiede spesso c’è la spazzatura, perché dopo anni di “emergenza” ancora non sappiamo che fine far fare ai nostri rifiuti. Pensi che l’ufficio di rappresentanza della sua regione è una piccola stanza con due computer al secondo piano di un palazzo, che organizza ogni tipo di attività senza mai fermarsi un attimo ed allargandosi sempre più alle altre nazioni, mentre quello della Regione Calabria si trova al centro di Schumann, nel cuore della politica europea, ma è desolatamente chiuso ed inattivo da non si sa quanto tempo ormai, nonostante l’affitto sia stato pagato anticipatamente anche per tutto il 2013. Guardi le strade ampie, i treni che ti collegano in ogni parte della nazione in meno di un’ora, osservi i mezzi del trasporto pubblico passare senza soluzione di continuità e, soprattutto, scopri quasi con sorpresa che qui tutti non solo pagano il biglietto, ma sono abbonati. Aveva ragione Banfield quando, parlando del Sud Italia, teorizzò il “familismo amorale” e disse che il problema era, soprattutto, culturale: perché di quell’abisso culturale di cui ci siamo nutriti in questi anni è figlia anche la politica che non solo non trova le risposte adeguate, ma che nemmeno dimostra di volerle cercare. Nemmeno il consenso interessa più alla classe dirigente calabrese: per quello ci sono i boss, che stando alle risultanze dei procedimenti giudiziari sono il principale bacino elettorale a cui si rivolgono, come questuanti in cerca di carità, inconsapevoli di essere burattini in mano ad un gioco molto più grande di loro che avvelena le loro terre e i loro figli. La Calabria da Bruxelles è un pugno in pieno stomaco, un gancio al fianco che toglie il respiro: non basta lodare la buona cucina, il sole, i paesaggi da favola e le bellezze artistiche e naturali di una terra troppo bella per essere vera. Aprire un giornale, vedere quello che accade, è troppo anche per chi ha ancora la speranza di vedere cambiare la propria terra: l’amarezza e la frustrazione vanno di pari passo con la rabbia che ti porta il sentirti impotente, troppo piccolo. Capisci in un solo secondo perché sei andato via e perché, nonostante tu raccolga sempre delle importanti soddisfazioni, il tuo primo pensiero è sempre rivolto a quel lembo di terra racchiuso tra Jonio e Tirreno. Qualche anno fa, un ristoratore di Cetraro alle prese con dei turisti inglesi mi chiese di aiutarlo in una traduzione immediata: i suoi clienti volevano sapere perché una terra così bella vivesse in quello stato di abbandono. Quando tradussi la loro domanda, mi guardò con uno sguardo carico di amara rassegnazione: “Raccontagli questa storia: di’ loro che quando Dio creò la Calabria, si rese conto che tra la bellezza delle coste ed i paesaggi sconfinati delle sue montagne, aveva fatto un lavoro troppo bello, e che per compensare la disparità con tutto il resto d’Italia creò i calabresi”. Ho tradotto tutto, ma dopo il risolino amaro della comitiva la rabbia dei miei vent’anni si scagliò contro il proprietario del ristorante: “Ne riparleremo quando, prendendo un treno o un aereo per lasciare casa tua, ci ripenserai”, mi disse. Aveva ragione, su tutta la linea: ma spero vivamente che la mia generazione sia in grado di non far ascoltare mai più ai ventenni del domani una frase del genere.

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