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di ROMANO PITARO
Addio all’ottava meraviglia del mondo? Così è se vi pare. Pirandello a parte, il Ponte sullo Stretto s’è squagliato improvvisamente. E in men che non si dica. Mentre tutti fingevano, dopo averne incensato i poteri magici e le avveniristiche virtù tecnologiche per anni ed anni, di non vederne l’inutilità, divenuta macroscopica e inequivocabile via via che l’Occidente imboccava una strada buia e al momento dagli esiti incerti, il ponte che non c’è (ma per il quale fin qui sono stati spesi parecchi denari) alla fine è stato demolito. Dopo l’Europa, che a più riprese aveva dato segnali precisi, considerando l’opera del tutto priva di senso ingegneristico, economico e geopolitico, è stato Montecitorio a licenziarla in tronco. In un Parlamento frastornato, galeotta una mozione dell’Idv che impegna il governo alla soppressione dei finanziamenti necessari alla sua realizzazione, per il futuro del Ponte, che fa a pugni con le decine di emergenze sociali del Paese e con i nodi economici che stritolano l’Europa, è suonata la parola fine. La parabola discendente di un’idea di cui si blatera fin dall’epoca dei romani (benché il moderno dibattito sulla sua realizzazione si possa far risalire al 1866, anno in cui il ministro dei Lavori pubblici Stefano Jacini incarica il costruttore Alfredo Cottrau di verificare la fattibilità della costruzione1982) è stata accompagnata da un acceso dibattito sul sito Internet del nostro giornale all’insegna del Ponte sì/ Ponte no. Un dibattito avviato sulla base di due ricche ed articolate interviste (una a favore l’altra contro) a due docenti universitari, il professor Domenico Marino e il professor Bruno Sergi che, con cognizione di causa, hanno illustrato ragioni e torti di un’impresa divenuta finanziariamente impossibile. Gli interventi pro non sono mancati, ma quelli contro hanno avuto uno sfondo economico e sociale che li rendeva più realistici e meno corrivi. E’ toccato ad Idv spingere definitivamente nel baratro il ponte immaginario. Guarda caso, proprio ad un partito il cui leader Antonio di Pietro, da ministro dei Lavori pubblici del Governo Prodi nel 2006, aveva impedito lo scioglimento della società “Stretto di Messina” Spa nata nel 1982, dopo che nel 1971 la legge 1158 aveva definito la realizzazione dell’opera “di interesse nazionale”. Ora, inducendo la Camera dei deputati a fare una cosa sensata, è come se Idv si fosse liberata di quel senso di colpa che ultimamente le impediva di pronunciarsi con schiettezza contro il Ponte, anche se il Gruppo di Idv del consiglio regionale della Calabria non ha mai avuto dubbi sull’inutilità di un’opera che “avrebbe collegato due deserti”. Da un pezzo, esperti e analisti ben attrezzati vanno ripetendo che per salvare questo Sud precarizzato in ogni suo interstizio (“in Calabria si ha la sensazione di vivere continuamente nell’emergenza”, ha detto il Benedetto XVI nel suo recente viaggio) non servono le grandi opere (che spesso tornano utili solo a chi le fa, o meglio le inizia a fare senza mai completarle); bensì la razionalizzazione dell’esistente. In particolar modo, investimenti mirati a renderlo praticabile, vivibile, integrato al suo intero e nelle sue relazioni con il resto del Paese e dell’Europa, legale e, soprattutto, attento al suo speciale patrimonio di intelligenze costrette a scappare per affermarsi o più semplicemente per sbarcare il lunario. C’è stato chi ha sostenuto, anche di recente, che il Ponte era la chance più preziosa per lo sviluppo del Mezzogiorno cacciato in un culo di sacco ormai da alcuni anni. Se fosse vero, visto com’è finita, significherebbe che ogni sforzo per salvare questa parte fondamentale del Paese è vano. Ma così non è. Cacciando, invece, dall’orizzonte scrutabile ogni catalizzatore ingannevole di attenzioni e delle poche risorse disponibili; sgombrando dal nostro presente ogni equivoco fantasmagorico o illusione di vincere la complessità dei problemi con semplificazioni pirotecniche, faraoniche, quasi dei totem ad una volontà di potenza al momento del tutto fuori dalla portata di un Paese irriso nel proscenio internazionale, forse si riuscirà a vedere meglio di cosa si ha effettivamente bisogno. Ed a misurare, con più oculatezza, la distanza tra ciò che serve davvero al Sud e le concrete possibilità di fargli fare veri passi in avanti. Uno dopo l’altro. Tangibili, e facilmente verificabili nei loro effetti concreti. Avendo ben presente che questo Paese, specie oggi, per quanto ostinatamente si stenti ancora a volerlo comprendere, non ha alcuna possibilità di rinsaldarsi, in un’unità che non sia solo chiacchiere e distintivo, e di svolgere quindi un ruolo da protagonista nello scacchiere mondiale, se non toglie dai guai, e rapidamente, il suo Mezzogiorno.
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