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di FULVIO LIBRANDI
Le continue notizie dei successi delle forze dell’ordine sulla ’ndrangheta in queste ultime settimane passano sui giornali puntuali ma senza commento. Non c’è dibattito e non ci sono tentativi di analizzare quello che accade. Pur venendo quotidianamente a conoscenza di trame sotterranee, di tante vergognose dinamiche della cosiddetta “area grigia”, il nostro spirito critico resta quieto in attesa di essere dispiegato, più forte di prima, al prossimo grave fatto di sangue. C’è un copione preciso dell’anti ’ndrangheta rituale che tiriamo fuori nei giorni gravi, giorni in cui l’indignazione “va a tre a un soldo”, quando, con spregio del ridicolo, auspichiamo con una sola voce un repentino cambio culturale. Sappiamo tutti, però, che per fare esercizio critico bisogna darsi il compito d’interpretare continuamente quello che ci accade, avere consapevolezza del fatto che la ’ndrangheta lavora bene quando non ha bisogno di uccidere, riflettere sui risultati di chi combatte sul fronte militare. La nostra è una memoria di rovine, perché i mattoni che utilizziamo per costruirla sono quelli della sconfitta e dell’ineluttabilità del male. Ricordiamo gli omicidi, le vittime di ’ndrangheta, ma non riusciamo invece a far diventare storia le passate stagioni positive della lotta alla ’ndrangheta, ed è probabile che non ci riusciremo nemmeno questa volta. I dibattiti più frequentati su alcuni giornali negli ultimi mesi hanno riguardato polemiche la cui consistenza si è sgretolata già sul breve periodo, e anche di fronte a operazioni dirompenti per intere famiglie ’ndranghetiste si è preferito eccepire pretestuosamente –come ha dimostrato il seguito della storia – su aspetti procedurali. Tutto ciò seguendo il modello narrativo della confusione, che in Calabria conosciamo benissimo. Uno dei temi che meriterebbe di essere approfondito è sicuramente quello delle collaboratrici di giustizia. Negli ultimi tempi riscontriamo infatti un elemento nuovo nella fenomenologia ndranghetista che sembra in parte sfuggire al controllo dell’organizzazione criminale. È come se questa mafia, che da sempre mostra abilità nel controllare le affiliazioni, il territorio, le alleanze, che è in grado di prevedere i cambiamenti economici e di aprirsi a molte novità tecnologiche, non sia completamente in grado d’interpretare e tenere sotto controllo alcuni elementi di rischio, quali la dignità di alcune donne, l’amore di queste per i propri figli, il loro bisogno d’immaginare per questi un altro destino. Le storie che leggiamo sui giornali negli ultimi mesi raccontano di donne, spesso di ragazze, che decidono di collaborare con lo Stato, e che per questo vengono uccise, a volte si uccidono loro stesse, o che, nel migliore dei casi, vivranno per sempre lontano dai propri luoghi d’appartenenza. Provenissero da altre culture, ad esempio da una comunità di immigrati – pensiamo al clamore mediatico che seguì all’omicidio della giovane donna pachistana Hina Saleem, uccisa dal padre perché non voleva sposare un cugino – queste vicende ci spaccherebbero il cuore e solleciterebbero la discussione collettiva. Invece sono storie della nostra terra, e vengono ben tollerate dal nostro sistema di anticorpi culturali che ci appanna lo sguardo e ci impedisce di metterle a fuoco, proteggendoci così da dall’eventuale vergogna di noi stessi. Il meccanismo di questa nostra autoprotezione è semplice: facciamo finta di credere che l’universo ’ndranghetista sia qualcosa di chiuso in se stesso, che puzza di sangue e di fumo di santini bruciati, e che è così lontano e diverso da noi da configurarsi come un corpo estraneo di competenza esclusiva delle forze dell’ordine. Ci rassicura la metafora del cancro, quando sappiamo bene, come è provato documentalmente, che alla ’ndrangheta è legata una parte cospicua della nostra economia, e che pertanto per molti, a diverse gradazioni di grigio, si tratta di un cancro assolutamente funzionale. Ciò che mi sembra nuovo, dicevo, e che rischia di essere un problema sia per la ’ndrangheta che per l’anti ’ndrangheta rituale, sono le voci di queste donne, che giungono alle nostre orecchie anche se mettiamo la testa sotto la sabbia. Si tratta di dichiarazioni, lettere, confessioni che risultano drammatiche e solenni, vere, assolutamente inequivoche. Il mese scorso in tribunale Denise, figlia di Lea Garofalo che secondo l’accusa è stata uccisa e sciolta nell’acido dal marito perché per un periodo aveva scelto di collaborare con la giustizia, ha testimoniato contro il padre, col quale ha vissuto per due anni dopo la scomparsa della madre. In tribunale questa ragazza ha dichiarato: «Ho passato un anno con mio padre e i suoi fratelli, pur sapendo che avevano fatto sparire mia madre. Ho fatto finta di niente, lavorato nella loro pizzeria, mangiato con loro, giocato coi loro bambini». La perdita della madre, l’atto di accusare il padre, compongono un quadro esistenziale potenzialmente terribile. È giusto che la solitudine di questa ragazza sia accompagnata dal silenzio della comunità? Un’altra vicenda significativa è quella di Maria Concetta Cacciola, che si è suicidata il 20 agosto bevendo acido muriatico. Si era presentata spontaneamente, non essendo accusata di nulla, alla Procura di Reggio Calabria per rilasciare dichiarazioni spontanee contro alcuni membri della sua famiglia. Non entro nel merito della vicenda processuale e ne scrivo col massimo rispetto per il dolore dei familiari, ma credo che alcuni brani della lettera amara che scrive alla madre riguardino noi tutti: «A 13 anni, sposata per avere un po’ di libertà, credevo che potessi tutto, invece mi sono rovinata la vita [.]per questo ti affido i miei figli. Ti supplico non fare con loro l’errore che hai fatto con me: dagli i suoi spazi, se li chiudi è facile sbagliare». Mi chiedo, senza polemiche, come trarre insegnamento da questa lucida consapevolezza; come farla diventare, attraverso la riflessione collettiva, spunto pedagogico; mi chiedo se di questa disperazione dobbiamo farci carico collettivamente o dobbiamo continuare a pensare che si tratta di storie di un altro mondo. Mi chiedo se dobbiamo archiviare questa storia ricordando solo le sterili polemiche che ha suscitato. Altra storia importante è quella di Giuseppina Pesce, collaboratrice di giustizia, le cui dichiarazioni hanno fornito riscontri a un quadro accusatorio già ben delineato contro la famiglia Pesce di Rosarno. La donna, riprendendo dopo un periodo di ripensamento il dialogo con i magistrati, ha dichiarato di essere certa che il suo pentimento le sarebbe costata la vita, e ribadisce che ogni sua decisione è legata a un possibile altro futuro per i figli. Le riflessioni sui suoi tre figli sono toccanti: «Io penso che mia figlia, la grande, non adesso, accetterà la mia decisione, quindi so che dovrò in qualche modo rassegnarmi a perderla per adesso, ma almeno il piccolo e la piccola riuscire a prenderli e fargli capire che la scelta giusta è quella da madre, che magari adesso so qual è la scelta giusta, anche se lo sapevo prima, ma adesso ne sono più consapevole».
Mi è sembrato veramente miope il tentativo di piegare questa storia a piccole polemiche, evocando garantismi insostanziali e rischiando così di fabbricare un altro mattone cattivo, che mina ancora di più la già minata memoria della regione. Conosciamo il valore delle dichiarazioni dei pentiti in una struttura familista come quella della ’ndrangheta. Non basta il lavoro di una magistratura autorevole e credibile: se non siamo in grado di far diventare tutto questo un discorso collettivo il contrasto militare, nonostante i successi che farà registrare, risulterà una velleità di pochi. Quali sono i nostri pensieri di calabresi di fronte a vicende simili? Quali sono le parole che possiamo rivolgere a chi, come Denise o Giuseppina, compie questo tipo di scelta? Possiamo trovare un modo per dire che forse non avremmo avuto il coraggio di fare lo stesso, ma che l’azione è sacrosanta? Quale vicinanza possiamo promettere a chi in futuro farà scelte simili? Come potremo farle sentire parte di un tutto? Come spiegare, ancora una volta e dopo secoli, che la contrapposizione tra le ragioni del cuore e le ragioni dello Stato delinea uno spazio della tragedia, ma è una sola la ragione che può salvare il futuro dei propri figli? Se abbiamo qualcosa da dire il momento è questo.

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