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A Roma capitale operano 24 ‘ndrine, 16 clan di camorra, 12 famiglie di cosa nostra e due nuclei della sacra corona unità pugliese. Una presenza di boss e picciotti discreta: niente omicidi, niente faide sanguinarie, a Roma e nel suo hinterland i padrini pensano a fare business. Il quadro emerge dalla relazione presentata dal prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro, davanti alla Commissione parlamentare antimafia. I capi delle organizzazioni criminali che si sono trapiantate nel Lazio, sono quelle dei Morabito, degli Bruzzaniti, dei Palamara, dei Sergi-Marando, degli Ierinò e degli Alvaro. Il loro obiettivo è di intossicare l’economia legale, comprare con i proventi del narcotraffico interi segmenti produttivi e per esercitare la loro pressione sul territorio sfruttano la collaborazione di professionisti insospettabili: colletti bianchi invisibili alla giustizia che entrano, chiavi in mano, nei gangli vitali dell’economia romana. Roma dunque, come sottolineato dal prefetto Pecoraro, «è uno dei luoghi privilegiati, insieme a Milano, per gli investimenti mafiosi». Un terreno fertile in cui, anche grazie all’accentuarsi della crisi economica, della mancanza di liquidità delle imprese e del sistema dei subappalti incontrollati, la criminalità organizzata ha gioco facile e si avvantaggia «espandendo il suo potere economico».
A Roma la criminalità organizzata calabrese ha scelto di mettere sul piatto i propri ingenti capitali e, senza urtare la suscettibilità dei boss siciliani e campani o stringendo alleanze con la tradizionale criminalità laziale, acquisire il controllo di ben determinati settori economici e commerciali della capitale: «Soprattutto a Roma, snodo essenziale di affari leciti ed illeciti – spiega il prefetto Pecoraro – le organizzazioni criminali acquisiscono, anche a prezzi fuori mercato, immobili, società e attività commerciali nelle quali impiegano i capitali illecitamente acquisiti. A riprova di tale tesi, basta considerare i numerosi sequestri di immobili, di esercizi commerciali di rilievo, di attività che hanno interessato – anche quest’anno – il territorio del Lazio e quello di Roma». Nella Capitale dunque, i boss immettono grandi somme di denaro nei circuiti dell’economia legale, riciclano i proventi delle loro attività illecite e, giorno dopo giorno, conquistano nuovi spazi di manovra. Una situazione da allarme rosso, sottolineata dal prefetto Pecoraro durante la sua audizione davanti alla Commissione parlamentare antimafia. «Gli investimenti effettuati, attesa la sproporzione rispetto alla situazione redditoria e alle stesse capacità imprenditoriali dimostrate – spiega il rappresentante dell’Ufficio territoriale di governo romano – costituiscono un evidente elemento indiziario di operazioni di riciclaggio di illeciti guadagni provenienti dalla cosca di appartenenza, che ha necessità di reinvestire tali capitali in attività lecite che ne consentano l’immissione ed il reimpiego nei circuiti dell’economia legale». «In sintesi dunque – conclude il prefetto Pecoraro – la potenziale minaccia dell’infiltrazione delle organizzazioni criminali nel territorio della Capitale e provincia, che desta maggiore preoccupazione e impone particolare attenzione, è proprio quella diretta nei confronti del tessuto economico. Detti sodalizi esprimono efficaci dinamiche di accumulazione finanziaria di patrimoni illeciti cui conseguono sempre più sofisticate capacità di riciclaggio e di reimpiego del denaro nell’economia legale. Sembra emergere, quindi, un’imprenditorialità mafiosa costituita da gruppi di imprenditori, professionisti ed altre figure che, in cambio di favori o di altre utilità, cura gli interessi delle cosche. Questi ultimi soggetti, spesso di basso profilo criminale per gli organi investigativi, risultano comunque essere personaggi di non trascurabile spessore per le rispettive organizzazioni, attese le loro specifiche competenze e capacità individuali nella gestione economico-finanziaria».
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