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di LUCIA SERINO
POTENZA – Il primo ad accorgersi che qualcosa non andava fu Franco Mattia. Nel 1998 è assessore all’assetto del territorio e alla tutela del paesaggio. Il permesso per fare ricerca di idrocarburi in località Montegrosso accordato alla società “Intergas più” già nel 1990 aveva bisogno del nulla osta regionale. Quando gli ispettori del corpo forestale dello Stato cercano l’autorizzazione negli uffici della Regione (all’inizio di un’indagine di cui era titolare il pm Cristina Correale e che ora è stata assegnata al pm Colella) non trovano nulla. Sentono un funzionario del dipartimento ambiente, gli chiedeno chiarimenti, il dipendente regionale fa ricerche in archivio, ma – conferma – di quel nulla osta paesaggistico non c’è traccia. Perchè non è mai stato concesso. Non fu un problema per la società: iniziò ugualmente l’attività di ricerca. Spregiudicati? O c’erano state complici rassicurazioni?
Un altro dubbio venne al dirigente del dipartimento agricoltura e foreste, Michele Radice. Avuta la valutazione d’impatto ambientale, lesse, studiò, rimase perplesso. E la trasmise – come del resto avrebbe dovuto fare in ogni caso – al dipartimento ambiente per assicurarsi un parere tecnico. Gli investigatori cercano pure quel parere. Sentono altri funzionari e si scopre che tutta la documentazione relativa alla società British gas rimi spa (una delle numerose sigle che si sono succedute nel corso degli anni con quote anche di Eni e Total) è stata depositata alla rinfusa, difficilmente rintracciabile. Ma molti atti fondamentali mancano perchè non sono mai stati adottati.
Già un anno prima, nell’ottobre del 1997, l’allora assessore all’Agricoltura, Vito De Filippo, chiede al collega dell’Ambiente, Filippo Bubbico, di esprimere un parere in merito alla Via (valutazione d’impatto ambientale) presentata dalla società permissionaria. L’assessore Bubbico, pur ricostruendo che il permesso di ricerca Serra San Bernardo non era assoggettato alla procedura di Via (prevista dal dpr 526/94) in quanto concesso in data antecedente, riteneva comunque, vista la dimensione dell’area destinata alla ricerca, di chiedere un idoneo piano ambientale. Quel piano, però, non fu mai redatto.
Maglie larghe che favorirono inevitabilmente le società petrolifere e le loro trivelle. Ad esempio: carte da allegare a qualche pratica spedita all ministero dello sviluppo svengono spacciate per autorizzazioni necessarie ai lavori. E quando il pozzo Monte Grosso 1 non sarà più utilizzabile per l’avvenuta chiusura mineraria (nel 2000) inizieranno i lavori in area Monte Grosso 2. Ci vorrebbe anche qui un nulla osta preventivo della Regione Basilicata. Ma non ci sarà. E’ il motivo per cui nel novembre 2007 l’area viene sequestrata. Gli investigatori sentono dirigenti regionali, per esempio la dottoressa Pietragalla. «La delibera di Giunta?» Mai fatta. Quella delibera era obbligatoria. La regione non sapeva delle attività in corso, si difende la dirigente. Ma gli investigatori sono scettici. E se la Regione sapeva come mai nessuno si è preoccupato di controllare che i fanghi da perforazione (altamente tossici perchè trattati con sostanze chimiche) erano lasciati a terra perchè la vasca di raccolta era stracolma? Quando il comitato tecnico regionale per l’Ambiente (presieduto dalla dirigente regionale Viviana Cappiello con la presenza della geologa Arpab Vaccaro) si riunisce per valutare la relazione d’impatto ambientale, gli esperti convengono che sì, è tutto a posto e va tutto bene. Poi inizia l’indagine. Forse qualcuno ci ripensa. Iniziano a rinfacciarsi le responsabilità. Accuse incrociate. Fino a quando qualcuno ammette candidamente: «Non è che quegli atti li abbiamo letti tutti tutti e così bene». Un suggeritore aveva assicurato che in quegli atti non c’era nessun vizio sostanziale.

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