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di LUCIA SERINO

POTENZA – Siamo in piena estate 2007. E’ il 10 agosto, l’attività della regione si è appena fermata per la lunga pausa feriale. Ma c’è una pratica da mettere a posto, prima possibile. Si riunisce il comitato tecnico regionale per l’Ambiente che deve valutare l’impatto della richiesta di perforazione per il pozzo petrolifero Montegrosso 2 da parte della società Intergas più. Il permesso per quella zona si chiama “Serra San Bernardo”. E’ dalla metà degli anni Novanta che si intrecciano sigle societarie che lì vogliono cercare petrolio. Ma quella data di quattro anni fa è importante. Una riunione e via. Il tempo di un “sì”, quando sono già tutti a mare, e si va tutti in vacanza.
La presidente del comitato è l’architetto Viviana Cappiello, direttore generale del dipartimento ambiente della regione, ci sono il dottore Salvatore Lambiase, dirigente dell’ufficio compatibilità ambientale, e la dottoressa Maria Pia Vaccaro, delegata dall’Arpab, la stessa dell’inchiesta Sigillito. Sono inoltre presenti altri funzionari regionali, l’ingegnere Vincenzo Zarrillo, l’ingegnere Fortunato Giordano, l’ingegnere Nicola Grippa. Il parere è positivo. Il comitato sostiene che la perforazione altro non è che la riperforazione del primo pozzo Montegrosso 1 che – sostengono – non raggiunse gli obiettivi per motivi tecnici.
Ma gli investigatori sono scettici.
E’ questo il punto di snodo di un’indagine che ricostruisce interessi petroliferi e presunte complicità pubbliche in una zona prossima a una delle località turistiche più propagandate della Basilicata: la foresta della Grancia e il relativo parco. Una storia di omissioni da parte della regione, ricostruiscono gli investigatori, di nulla osta che mancano, di pareri contraddittori e – si spingono a iptizzare – di eventuali reati più gravi, potrebbero esserci dei falsi. L’inchiesta è stata svolta dai carabinieri del Noe e dagli uomini del corpo della Guardia forestale che hanno trasmesso un voluminosa nota informativa alla Procura della Repubblica. L’inchiesta è nella mani del pubblico ministero Colella, lo stesso del disastro Fenice. Dalla metà degli anni Novanta la partita degli interessi delle società petrolifere, con la prima richiesta di ricerca idrocarburi in località Montegrosso, è facilitata – sembrerebbe a un primo controllo – dalla sciatteria organizzativa di alcuni uffici regionali. Servono autorizzazioni, ma nessuno le dà e nessuno le chiede. E soprattutto nessuno controlla: quale condizione migliore? Quando gli investigatori cercano permessi e autorizzazioni in archivio non ne trovano, quando chiedono di visionare documenti e pareri capita che qualche impiegato risponda che l’andazzo era quello, che l’organizzazione non era perfetta. Carte conservate alla rinfusa, messe un po’ qua e un po’ là. Ma è solo sciatteria si chiedono gli investigatori? Possibile che sia impossibile ricostruire l’iter di un permesso di ricerca petrolifera? Se sciatteria è stata quelle carte sono state conservate con la stessa cura che si può dare a una circolare interna. Ma forse non è solo sciatteria, quei nulla osta, probabilmente, non sono mai stati dati. Volutamente.
Carabinieri e guardie forestali sono meticolosi nelle indagini: sentono persone, perquisiscono uffici, studiano carte topografiche, fanno sopralluoghi, cercano di capire alcuni comportamenti dei dirigenti dell’ufficio minerario del ministero dell’industria. Ci sono strane conversazioni. L’interrogativo è intuibile: ci sono state spinte terze che hanno influito sul lasciapassare silenzioso che la regione ha dato alle società, le molte che si sono succedute, nella trivellazione di quel territorio che ricade nel comune di Brindisi di Montagna? Uno dei nodi dell’inchiesta è la continuità tra il primo permesso di ricerca mineraria e il secondo, Montegrosso 1 e Montegrosso 2. Per gli investigatori si tratta di attività diverse, per la regione no. Si poteva cercare petrolio in quell’area senza nulla osta, senza precisare quale dovesse essere il canone da pagare, senza controllare i limiti dell’area effettivamente sottoposta al movimento terra? Ma c’è di più: nella valutazione di impatto ambientale che la società sottopone alla regione viene descritta l’area interessata allo studio esterna dai principali percorsi turistici nonché distante dai centri abitati: c’è solo pascolo, si asserisce, e non ci sono corsi d’acqua. Parliamo della foresta Grancia: non ci sono corsi d’acqua? Per la società petrolifera no, e no ribadiscono anche i dirigenti regionali. Eppure non sarebbe neppure necessaria la consultazione integrata del sistema informativo territoriale per sapere che nel giro di pochi chilometri vi è il fiume Basento, a 1500 metri c’è l’impluvio Fosso del Monaco, a mille metri c’è una sorgente a servizio di un nucleo abitativo, a 1680 metri c’è l’Acqua della Cerasa. E quelli che sono indicati come casolari degradati sono in realtà insediamenti abitativi di tutto decoro. Siamo alla periferia di Potenza. Nessuna attrattiva turistica? Nel raggio di pochi chilometri c’è il parco della Grancia, tutti sanno cos’è e quali rappresentazioni si svolgono d’estate. Gli investigatori sentono anche un’altra dirigente regionale, Rosa Maria Pietragalla: delle anomalie dell’attività di ricerca e perforazione gli uffici regionali non sapevano nulla, dice. Nulla? Le dichiarazioni sono al vaglio del pm.
E infine l’inquinamento. Le vasche di raccolta dei fanghi di perforazione si sono riempite presto: ne hanno sbancata anche una seconda che poi è misteriosamente scomparsa. L’Arpab fa degli esami: c’è il forte sospetto che possano esserci sostanze fortemente tossiche come vanadio, mercurio e bario nel materiale che è stato lasciato a terra: a pochi passi dalle sorgenti d’acqua.

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