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di LUCIA SERINONON sarà una partita a carte, stavolta. Amava farne, Sigillito, dicono solo a Natale e a Pasqua, con Tonio Boccia (l’ex presidente della Regione con cui condivideva anche la passione per il tennis), Nino Grasso (il portavoce del governatore) e Michele Mongiello, (imprenditore della Patrone e Mongiello). Tressette o stoppa, al tavolo di una granitica composizione di potere che dalla politica, all’informazione, all’imprenditoria saldava amicizia, azioni di lobby, spinte per obiettivi. «Una persona perbene», dice Nino Grasso, che oggi, nel giorno della massima disgrazia, non si tira indietro e difende l’amico conosciuto a metà degli anni Ottanta. Approdato alla Regione trent’anni fa, nella scalata ai massimi vertici del potere gestionale, Sigillito, a leggere le carte della Procura, ha ricambiato i suoi sponsor con pari moneta. Gli diedero, tanto per iniziare, agli albori della sua carriera, l’antica delega alle “cave e torbiere”, ma alla Regione capì presto come si fa strada, fece fuori, aiutato, un po’ di dirigenti e arrivò a posizioni di vetta, fino a diventare direttore generale dell’Arpab: il compimento di un’ascesa irresistibile ma anche l’inizio della sua fine. «Si è messo contro i sindacati, ha messo da parte un po’ di dirigenti e ora sta pagando», dice chi lo difende, «ma lui non ha mai preso una tangente, ha solo aiutato un po’ di precari». L’artefice di un disastro ambientale, e poi un ras, uno che favoriva i suoi amici e i suoi padrini, secondo le carte della Procura, figlio di quel sistema ma principe accusatore dello stesso sistema: a telefono si sfoga contro «questi qua che si intromettono», i politici, «questi qua che rompono le palle, mica gli importa a qualcuno di Fenice, gli interessa solo il consenso, il loro tornaconto». Stava impazzendo per quei benedetti dati sull’inquinamento. Accusato e accusatore, gran potente scaricato nelle ultime settimane, quando l’aria era già arsa di veleni giudiziari, forti e preoccupanti come quelli emanati da Fenice. Nervo del circuito clientelare, ma anche uomo oppresso da continue e pressanti richieste. Un giro di partita: la politica lo aveva messo lì, la politica gli consigliava come drenare flussi di finanziamento per l’agenzia, la politica gli chiedeva il conto sulle assunzioni dei precari (tutti “parenti e amici di”), ogni nome una famiglia di voti. Un sistema diffuso che poi compariva nei comunicati ufficiali come lode «alla gestione brillante dell’Arpab», parole concordate preventivamente.
Dicono che non amasse perdere, persino a carte a volte gli consentivano di vincere. Simpatico, a modo suo, ma anche difficile di carattere. Nelle ultime settimane, fiutando l’aria di tempesta, aveva deciso di parlare con noi perché non riusciva a spiegarsi come lui, proprio lui che tutto aveva denunciato alla Procura di Melfi, fosse finito nel girone dei sospettati. «Io non sono indagato», si autorassicurava, anche perché beffa ha voluto che dalla Procura di Melfi fosse arrivato qualche settimana prima un avviso di chiusa indagine che ovviamente non lo riguardava. «Sono fuori», si era tranquillizzato, aveva respirato e se ne stava nel suo ufficio, in disparte: era tornato alla Regione, da dove era partito. Difficile immaginare di cosa potesse occuparsi. Chissà se immaginasse che bolliva altro nella Procura del capoluogo.
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