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Droga, usura, ma non solo. Sono anche altri gli affari dei Cosco. I carabinieri di Milano hanno scoperto una gestione da “immobiliaristi” dell’ex ospedale Maggiore di Milano in via Montello. Una struttura pubblica occupata abusivamente e trasformata in un fortino, di cui erano «sostanzialmente padroni» i presunti aguzzini dell’ex collaboratrice di giustizia di Petilia Policastro, Lea Garofalo, scomparsa nel nulla, nel novembre 2009, appunto nel dedalo di via Montello e probabilmente uccisa e sciolta nell’acido.
Spulciando nella nuova ordinanza di custodia cautelare in carcere notificata in carcere, nei giorni scorsi, all’ex convivente della donna, Carlo Cosco, 43 anni, ai suoi fratelli Giuseppe e Sergio, di 47 e 42 anni, a Carmine Venturino, 33 anni e Rosario Curcio, di 35, tutti petilini (ma insieme a loro è stata arrestata anche Renata Plado, moglie di Giuseppe), già detenuti, dall’ottobre 2010, per la sparizione e l’uccisione di Lea per le quali sono sotto processo davanti alla Corte d’Assise di Milano,emerge «una vastissima ramificazione di interessi», come scrive il gip Giuseppe Gennari. Affari rispetto ai quali «l’eliminazione di Lea Garofalo appare incredibilmente quasi un fatto di secondaria importanza: una resa dei conti personale della potente famiglia Cosco».
Tornando a via Montello, dove la stessa Lea abitava, e dove i Cosco secondo gli inquirenti milanesi, hanno guadagnato molti soldi grazie alla vendita e all’affitto di alloggi ubicati nel comprensorio di proprietà dell’ospedale Maggiore. Un calzolaio vittima di usura e minacce da parte dei Cosco, che operava e viveva proprio negli alloggi di via Montello, ha raccontato, nel corso di un interrogatorio fiume, le vicende “immobiliari” e i rapporti avuti con Giuseppe Cosco che gli avrebbe proposto di interessarsi per la vendita ma lui avrebbe rifiutato. L’uomo ha riferito che «gli alloggi vengono venduti a eritrei, i capannoni vengono affittati a cinesi».
E gli affari si sarebbero allargati dopo aver venduto praticamente tutta via Montello: i Cosco si sarebbero infatti procurati le chiavi di uno stabile sito nella vicina via Canonica sempre di proprietà dell’ospedale Maggiore, iniziando a vendere appartamenti agli eritrei.
Dalla roccaforte di via Montello Lea fuggì, invece, per tornarci solo perché attirata in una trappola. Regista dell’operazione conclusasi con la morte della 35enne da cui aveva avuto Denise, che oggi vive sotto protezione, viene considerato dalla Dda di Milano l’ex convivente della donna, Carlo Cosco, che voleva costrigerla a riferire cosa avesse dichiarato agli inquirenti come collaboratrice di giustizia sul delitto Comberiati, il cui responsabile sarebbe stato, secondo la Garofalo, proprio Carlo Cosco.
Le dichiarazioni della donna – relative ai traffici di stupefacenti delle famiglie di Petilia Policastro ed agli omicidi di Tommaso Ceraudo, Silvano Toscano e Antonio Comberiati – non sono mai state oggetto di discovery processuale. Ma nel luglio del 2002 Lea fu interrogata dal pm Antimafia Sandro Dolce. E riferì dell’attività di spaccio di stupefacenti condotta dai fratelli Cosco grazie al placet del reggente dell’epoca, Tommaso Ceraudo, per il fatto che Carlo era il cognato di Floriano Garofalo, fratello di Lea (assassinato in un agguato nel giugno 2005) e capo indiscusso della frazione Pagliarelle di Petilia. Sempre secondo Lea, i dissidi nati tra l’uomo ed i Cosco sfociano in una lite, avvenuta nel febbraio del 1995, tra Antonio Comberiati e la stessa Lea, al termine della quale Carlo “sentenzia” il futuro di Comberiati. Dell’omicidio Lea attribuisce la paternità, fornendo oltretutto anche il movente, all’ex convivente ed al cognato, Giuseppe, detto Smith, dal nome di una marca di pistole. «L’ ha ucciso Giuseppe Cosco, mio cognato, nel cortile nostro».
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