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Una vera e propria stangata è stata inferta dal Gup di Reggio Calabria, Roberto Carelli Palombi, al clan Pesce di Rosarno. Vent’anni di carcere al boss Vincenzo Pesce di 52 anni (in foto) e altrettanti al il nipote Francesco (33 anni), considerato il reggente della cosca dopo l’arresto del padre Nino e dello zio, sono un duro colpo. Una condanna pesantissima che diventa ancora più pesante sul piano economico e su quello simbolico, con i sequestri trasformati in confisca, e i risarcimenti decisi dal Gup in favore delle parti civili.
Dieci milioni di euro andranno infatti alla Ministero dell’Interno. Altrettanti saranno levati ai Pesce per darli alla Regione Calabria. Mentre il Comune di Rosarno avrà cinquanta milioni di euro da trasformare in scuole, servizi sociali, case popolari. Per rifare reti fognarie e strade. Per realizzare tutto ciò di cui i cittadini rosarnesi hanno bisogno. La Procura è soddisfatta del risultato e alla lettura della sentenza dell’inchiesta “All Inside” nell’aula del Cedir è calato un silenzio surreale. Non è solo per le condanne dei Pesce, quanto per l’impianto accusatorio che ha retto nel suo insieme. Una struttura che avrà un peso anche nella parte del processo che si sta svolgendo a Palmi con il rito ordinario. E infatti, la pericolosità della cosca nell’organizzazione della ‘ndrangheta, viene riconosciuta anche con la condanna a 10 anni di reclusione di Domenico Arena (cognato di Vincenzo Pesce) e di Salvatore Consiglio. Carcere anche per le donne della cosca. Elvira Mubaraskina, moglie del boss Giuseppe Ferraro, dovrà scontare 6 anni di detenzione. Due anni (pena sospesa e non mensione) sono stati inflitti poi a Francesca Zungri e Lidia Arena. A 3 anni, infine, è stato condannato Giovanni Romano, e a 4 Rocco Carbone. Fin qui il livello più squisitamente mafioso. Ma l’aggravante dell’articolo sette è stata applicata anche a due uomini dello Stato: il carabiniere Lucio Aliberti sconterà 3 anni, e la guardia giurata Eligio Auddino 3 anni e 4 mesi. Per il giudice entrambi agirono consapevoli dei vantaggi che apportavano al clan. Unico assolto Claudio D’Agostino, che esce dal processo per non aver commesso il fatto. Non luogo a procedere, in quanto deceduto, per Francesco Giovinazzo.
Ieri sera sono scattati gli ordini di carcerazione per gli imputati ancora a piede libero e durante una perquisizione a casa di Arena, è finito in manette il figlio, per detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti.
Confiscate anche due società di calcio
Settanta milioni di euro in risarcimento danni alle parti civili è un fatto eclatante. Una cifra stratosferica, che secondo il giudice del processo che si è svolto con il rito abbreviato dovrà tornare alla collettività. In questo senso, 50 milioni di euro andranno al Comune di Rosarno, 10 milioni alla Regione Calabria e altrettanti al Ministero dell’Interno. Al clan viene confiscato tutto il patrimonio immobiliare, e anche alcune società di calcio che erano appartenute ai boss. E’ il caso della squadre di calcio As Rosarno (in questo caso già fallita) e della As Dilettantistica Cittanova Interpiana Calcio.
Fondamentali i verbali di Giuseppina Pesce
Sarebbero stati condannati ugualmente, ma a pesare sulla sentenza sono state anche le dichiarazioni di Giuseppina Pesce. Il Gup, infatti, ha tenuto conto dei verbali nei quali la collaboratrice ha parlato del cugino Francesco, dello zio Vincenzo e di Domenico Arena. Non è un caso che i tre siano stati quelli cui il giudice Roberto Carelli Palombi ha inflitto le pene più pesanti, condannandoli a 20 e 10 anni di reclusione. Giuseppina – che aveva prima collaborato per poi fare un passo indietro e tornare solo di recente a stare dalla parte dello giustizia – aveva descritto minuziosamente la personalità ed il ruolo dei tre congiunti. E nonostante ieri Ciccio Pesce (alias “Testuni”) avesse rilasciato dichiarazioni spontanee disconoscendo davanti al giudice la cugina, e affermando di non averci mai avuto nulla da spartire e ribadendo di averla cacciata da casa sua, il Gup, Carelli Palombi, non si è convinto considerandolo un uomo di primissimo piano della “famiglia”. Degno nipote, secondo il giudice, di quel Vincenzo Pesce, considerato uomo vicinissimo a don Mico Oppedisano, il Crimine della Madonna di Polsi, finito in manette pochi mesi dopo di lui.
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