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di LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI
La cronaca di queste giornate convulse ci fornisce l’immagine di un premier asserragliato nel suo bunker, insidiato da probabili ricatti, intercettazioni, insulti da lui pronunciati verso il Paese che pur continua a voler governare e che a suo tempo dichiarò di amare svisceratamente, ormai privo di quel miscuglio di carica innovativa, creatività, improntitudine che pur ha caratterizzato spesso la sua gestione del potere. Ormai Berlusconi sembra costretto a ripetere una serie di bugie ritenendole magicamente trasformate in verità solo perché ossessivamente reiterate e servilmente proclamate dai suoi cortigiani. Né il panorama cambia sostanzialmente in altre aree politiche, che sembrano tutte pervase da questo sistematico ricorso alla bugia, nel tentativo di presentarsi diversi da come le proprie azioni testimoniano di fatto. Dinanzi a questo orizzonte di tramonto di basso Impero, val la pena forse riflettere su altre dimensioni di verità, atte a trasportarci su un diverso piano, forse non infecondo. Cosa è la verità? Alla domanda rivolta da Pilato, presumibilmente in maniera pretestuosa, al Divino Prigioniero, segue il silenzio e vale la pena continuare a interrogarsi su questo silenzio. Certo esso non è dovuto ad assenza di parole o più in generale a incapacità di comunicare di Chi aveva trascorso gli ultimi anni della sua vita a predicare alle turbe, senza contare le discussioni con i saggi del Tempio, quando i genitori, avendolo perso in occasione del viaggio a Gerusalemme lo ritrovarono appunto immerso in discussione con i saggi. Verità nata dalla tensione religiosa dell’etica laica, pervasa da non minore spiritualità, punto di riferimento di tante, tante persone che la assumono come roccia su cui costruire i propri modelli, le proprie azioni, comunque tendenti all’Assoluto. Per questo suo rapportarsi comunque alla dimensione dell’assoluto si sviluppa un drammatico paradosso: molto spesso in nome di una Verità da imporre, di un Ideale da realizzare ad ogni costo si compiono atrocità epocali che negano concretamente le Verità, gli Ideali così spietatamente proclamati. I roghi delle streghe, le guerre di religione, le crociate, i campi di sterminio, i lager staliniani, la violenza sacralizzata quando rivolta ai “cani infedeli” individuati dal fondamentalismo islamico (cioè, tutti i non islamici), il sostanziale disinteresse per gli appartenenti al Terzo Mondo, di quanti di noi si rinchiudono ciechi nella superiorità della nostra Religione, della nostra Civiltà, e tante, tante altre vicende storiche e modalità quotidiane apparentemente minute, esemplificano tragicamente, ognuno con peculiarità proprie e responsabilità specifiche, tale paradosso. Si situano su un piano radicalmente diverso le verità assunte nella accezione antropologica. Le scienze antropologiche si basano costitutivamente sulla consapevolezza della molteplicità delle culture, delle lingue, delle religioni, dei modelli di comportamento, degli usi e costumi nei quali si sviluppano concretamente la vita delle diverse società e degli individui che le compongono partecipando costitutivamente all’ethos collettivo delle specifiche comunità di riferimento. Non è legittimo assumere come metro valutativo di tutto ciò la distanza maggiore o minore che le diverse culture hanno con la nostra Civiltà, con la nostra Razza, con la nostra Religione, con la Pigmentazione della nostra pelle, ché si tratterebbe soltanto di una nostra assoluta miopia etnocentrica. Un mito relativo alla creazione delle razze umane è estremamente significativo e ha, a mio avviso, valore esemplare. Quando la Divinità si accinse a creare l’umanità prese dell’argilla e modellò la figura umana facendo così una statuetta che pose a cuocere nel Grande Forno. Era molto soddisfatto per la sua opera e lasciò cuocere la statuetta molto a lungo, per cui quando la tolse dal forno la trovò troppo annerita, per cui la mise da parte. Da essa discendono i Neri. La Divinità riprese a modellare una nuova figura e pose anche questa nel Grande Forno ed era tale la sua ansia realizzatrice che la estrasse troppo presto, per cui la statuetta risultò poco cotta, pallida. Anch’essa fu messa da parte e da essa discendiamo noi Bianchi, imperfetti per difetto rispetto alla Vera umanità. Il Creatore mise da parte anche questa statuina e continuò pazientemente la sua opera. Modellò una terza figura e fu particolarmente attento a non lasciarla cuocere né troppo a lungo né troppo poco e quando estrasse dal Grande Forno la figura, questa era perfetta, né annerita, né pallida, ma adeguatamente colorita. Da essa discendono gli indiani. Dovrebbe essere superfluo chiarire che si tratta di un mito indiano delle origini. A parte la considerazione che è salutare per noi occidentali, così etnocentricamente convinti della nostra superiorità, sapere che presso altri popoli veniamo considerati inferiori proprio per la pigmentazione della nostra pelle, questo mito mi sembra estremamente significativo per indicare come quasi sempre i popoli hanno bisogno di ancorare la propria convinzione di superiorità rispetto a tutti gli altri sull’appartenenza alla propria razza. Il razzismo si sviluppa anche perché strumento ritenuto essenziale per il senso della propria appartenenza etnica, per la propria identità collettiva, come ha ben visto, tra gli altri, Claude Lévi-Strauss nei suoi discorsi alle Nazioni Unite. In realtà ogni cultura, ogni etnia, hanno un proprio orizzonte simbolico nel quale si situano le specifiche verità elaborate in quell’area, anche se esse concretano esigenze universali. Nel mondo sono state individuate oltre tremila culture e quasi sempre ogni cultura si articola attraverso culture parziali o subculture, nell’accezione antropologica, che non significano affatto culture inferiori, ma peculiari di aree, classi, categorie determinate. È impossibile, quindi, riportare i tratti di tale complessa e variegata fenomenologia, quale si è storicamente declinata nel tempo. Nonostante l’approfondito impegno delle diverse generazioni di studiosi che negli ultimi tre secoli hanno indagato le innumerevoli modalità attraverso le quali le tante popolazioni e i differenziati gruppi elaborano le loro verità, secondo le quali si dispiegano i diversi settori. Dato l’impegno, possiamo disporre di un immenso materiale antropologico, che testimonia come proprio il concetto di verità conferisce, nelle diverse aree, senso all’esistenza e orizzonte perché sia possibile l’umano operare. La dimensione religiosa permea, dunque, innumerevoli modalità della cultura tradizionale, testimoniando una varietà di verità di cui occorre tenere conto. Ogni cultura o subcultura, nell’accezione antropologica, ha una sua dimensione religiosa che si declina attraverso moltissime forme nelle quali si dispiega l’incessante lavorio teso a conferire senso all’esistenza e a rendere il mondo dimora dell’uomo. A tutto questo bisogna accostarsi con estrema attenzione, impegnando tutta la nostra tensione conoscitiva ed etico-politica. Condizione preliminare, necessaria anche se non sufficiente, è la volontà di considerare l’Altro come a noi simile, la cui diversità può arricchirci nell’incontro come noi possiamo arricchire lui, nella reciprocità di uno scambio tra uguali. Liberta e eguaglianza, libertà dal bisogno e libertà di autorealizzazione, eguaglianza nelle condizioni di partenza e nel concreto svolgersi dell’esistenza, fratellanza, solidarietà, altruismo, rispetto per la vita, amore, identificazione con l’altro, cielo stellato sopra di noi e legge morale dentro di noi: sono tante le espressioni nelle quali l’etica laica e l’etica religiosa, ambedue intrise di intensa spiritualità, hanno testimoniato la volontà di migliorare il mondo, di rintracciare in esso le infinite verità prodotte dagli uomini. Tentativi tutti che costituiscono una delle più alte conquiste del pensiero occidentale e dicono come tra l’uomo e la verità, nelle sue infinite sfaccettature, intercorrano complessi rapporti. Da rispettare, da conoscere.
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