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CARO Paride, me lo dicevo io: fermo, stattene buono, ti farai mica fregare un’altra volta da quel diavolo di un Di Consoli che pare se ne stia sempre là a buttar sassolini nello stagno e poi, invece,onda dopo onda al posto dei cerchi concentrici s’alzano gli tsunami che peggio del Giappone. E dire che m’ero fin qui seguito il dibattito sul QdB bevendomi tranquillamente gazzosa in poltrona, anche perché, come dico sempre “un po’ per celia, un po’ per non morire”, guardo la Basilicata da Marte standomene nel (non più tanto) dorato esilio della Toscana granducale. Mica bruscolini, ché il QdB lo leggo, se va bene, con un giorno di ritardo almeno, e dunque non faccio a tempo a rallegrarmi per le risposte pertinenti e articolate (da me condivise o meno), tipo quelle di un Alfonso Pascale, ma pure nemmeno faccio in tempo a imbufalirmi più di tanto, poniamo, per i personalismi di un Rocco Catalano, che francamente giungono al palato con il tipico retrogusto della lippa di sagrestia: scomposta, confusa, sostanzialmente inutile al dibattito. Tuttavia, se di politica ne ho fatta, in Basilicata ben poca; così come non conosco i singoli protagonisti di volta in volta citati. E dunque su questo piano ero sicuro di non ingaggiarmi più di tanto, tenendomi per me le idee che mi son fatto, inclusa quella sul carattere dei lucani espressa da Andrea, che condivido appieno. Epperò, quando sembrava l’avessi fatta franca, eccoti gli interventi che ti fanno saltare le staffe, mannaggia. E così sono ormai dei giorni che mi chiedo il consigliere comunale di Gorgoglione Gianpaolo Gagliardi quanti anni abbia. Io spero molti, moltissimi, ché uno giovane non può esprimersi su un quotidiano come in uno dei nostri consigli comunali, con quelle frasi dal movimento lento, largo, retorico, tipo “la nostra amata regione”, “aprire un confronto generazionale tra esperienza ed entusiasmo”, “essere protagonisti di una nuova fase”, che già ti fanno prevedere che si andrà a parare nel fumo. Ma su quale frasario per politicanti le trovano ‘ste perle? E questi sarebbero quelli che dovrebbero costruire “nel proprio piccolo spicchi di Basilicata migliore”? Bah, io mi deprimo! Sia ben chiaro, Gagliardi non lo conosco, ma conosco cosa rappresenta (e dunque, sia ben chiaro, non ce l’ho con lui in quanto persona, ma in quanto funzione politico-amministrativa e in quanto rappresentante dello stato sul territorio). Soprattutto se poi mi frana sulla cosa più essenziale, evitando cioè di porsi l’unica domanda fondamentale a evitare i conti con la cattiva coscienza della classe politica locale cui appartiene, proprio l’unica atta a scardinare l’adesione a quel sistema che fin qui ha bloccato il cambiamento. Dice il nostro consigliere: “Nessuno può negare che per forza di cose il potere, soprattutto politico, oggi come oggi, è di chi se l’è conquistato. Non preoccupiamoci per adesso del come e del perché”… Come non preoccupiamoci del come e del perché?! Come, chiedo ai tanti consiglieri comunali alla Gagliardi, si potrà giungere (seguendo la sublime metafora del nostro) alla “vetta di quella montagna dove la strada delle idee e quelle delle possibilità si incontrano per la costruzione di un sentiero migliore per tutti”? Come potranno giungere i giovani di oggi a farsi classe dirigente del domani? E gli Aldo Schettino e i Sergio Mauro con i De Filippo & Co. non vorrebbero prendere nemmeno un caffè. Ma qui bisognerebbe iniziare a rifiutarli parecchi scalini più in basso i caffè, cari miei. Ma non la vedete la piramide, la babele che sale dal basso verso l’alto? dal basso verso l’alto, sottolineo. Ma non lo vedete il gioco di specchi? Non vedete che già a questo livello la politica amministrativa come confronto alto con la realtà s’è pervertita a bifido balocco del potere? Non lo vedete come la nostra società pulluli di giovani nati vecchi? E nel contempo come non accorgersi, come non presentire una nemesi, un’apocalisse vicina? Di Consoli ha parlato giustamente, nei suoi interventi, di una politica che non può che andare sgretolandosi nella propria illusione di autoreferenzialità, soprattutto perché eventi esterni stanno generando condizioni coattive all’ulteriore indebolimento della rappresentanza di questa classe politica già sostanzialmente subalterna a poteri e pressioni esogene. Ma io mi chiedo se un dilemma di autoreferenzialità non si ponga anche per l’intera società lucana, sostanzialmente bloccata nei suoi meccanismi di trasmissione familistica del potere, nella sua scarsa dinamicità, nella sua incapacità di generare una società civile capace di indirizzare di nuovo verso l’alto lo sguardo della politica. Perché se ciò non sarà, è chiaro che ancora una volta la Lucania subirà cambiamenti, nel buono e nel cattivo, imposti dall’esterno. O quanto meno poco potrà opporvisi o esercitare un potere di indirizzo alcuno. Comunque sia, caro Paride, nonostante questa incazzatura, poi mi son venuti i sensi di colpa. E sì, perché poi mica volevo spargere terrore turbando il caldo bagno alla camomilla per cui vanno tanto pazze le lucane genti, sfiduciando “i più coraggiosi” e comportandomi da “chi si limita a scrivere le proprie opinioni da fuori regione”. Gagliardi mi perdoni. Così come dovrà perdonarmi Antonio Orlando, il giovane, questo sì, liceale di Policoro che chiede, con certo piglio (ed è un bene) ad Andrea: “è forse convinto Di Consoli, che nei pub di Gorizia, di Frosinone, di Trapani troverebbe una situazione diversa?”. Ma questa, mio caro omonimo, io la chiamo foglia di fico. Che non fa che lasciare scoperto il resto del corpo – come dire? – la struttura concettuale sottesa al discorso. Tutta qui la rivoluzione dei giovani lucani, omologarsi? Allora forse i problemi che si millantano in questa regione non esistono. Perché per dirsi tenaci, per rivendicarsi il futuro di una terra, bisogna dichiararsi mica uguali al resto del mondo, bisogna dichiararsi altro, bisogna farsi diversi, bisogna misurarsi ai problemi specifici del proprio territorio. E mica basta solo convincersi a non andare via per tenere in piedi un paese. Per tenerlo in piedi ci vogliono idee, visioni, “un fisico bestiale” cantava qualcuno. Facile prendersela con chi se ne è andato se poi si resta al paese per fare la stessa piatta vita di un altro giovane che se ne sta a Varese, o a Firenze, o a Bologna. I giovani non sono rivoluzionari per natura, questa è pura illusione ottica. Dipende dal contesto, dal clima storico e culturale. E giovani erano pure la maggioranza dei volontari che partirono per appoggiare i nazionalisti franchisti durante la Rivoluzione Spagnola del 1936, così come molti rappresentanti dei fascismi-movimento in tutta Europa. Giovani erano i bonehead, anche italiani, di un decennio fa. Giovani, e molti meridionali, i sostenitori di gran parte della politica conservatrice di questi anni. I giovani lucani, dice a mio avviso un po’ paternalisticamente Anna Rivelli “faticano a sognare perché la realtà li zavorra all’oscenità del presente”. Ma cosa c’era di più osceno del presente e della realtà dei giovani nella Francia prerivoluzionaria, nella Russia zarista, nell’Italia e nell’Europa subissata da anni di propaganda nazifascista e stroncata da cinque anni di guerra mondiale? Osceno deriva da fango. E quello era fango vero. Pure, rigato di sangue e passioni, come la vita. Ma qui è palude. Qui in Basilicata i vecchi non hanno bisogno di temere i giovani, perché i giovani non sognano né la rivoluzione, né la reazione. I giovani in Basilicata oggi non sognano affatto un mondo alternativo nella rottura generazionale (anche perché parecchi di loro campano con la pensione dei padri). E comunque, come ho già scritto tempo fa su questo giornale, quando i giovani in Basilicata erano davvero tanti, non furono mai abbastanza per cambiare. Molti votavano con speranza contro i vecchi maggiorenti democristiani (quelli sì son sempre stati vecchi), ma molti non votavano certo contro. Persino certi giovani maestri a scuola media cercavano di ingaggiare qualche ragazzo per attaccare manifesti elettorali (questo tentato plagio me lo ricordo bene), mentre il resto lo facevano le apprensioni delle madri (fino a sfinimento) se con troppa fermezza s’esprimevano in famiglia certe opinioni dissonanti. Lì sì che “i padri” poterono temere forse qualcosa. Ma ora, normalizzata la situazione? Ora con una politica ridotta nella notte nera del bisogno come le vacche del famoso filosofo? Ora quale alternativa tra gli emuli di Briatore con veline assortite, o i bivaccanti dei bar e pub notturni, e quelli che ogni giorno sgobbano come muli nella totale sicurezza di non poter far mai una carriera decente o di togliersi dalle sabbie mobili del precariato? Altro che rivoluzione, questa è sopravvivenza in una regione che sullo scacchiere nazionale vale come il due di picche. E di quale realtà poi si va parlando se nessun giovane o quasi ha più ha un orizzonte condiviso del reale, un’esperienza generazionalmente fondante? Il gregge mi pare, insomma, assai sparigliato. Un’ultima cosa. Mi è parso troppo presto che quanto detto da Di Consoli sia stato tradotto con la parola “vecchio”. Ma in realtà Andrea nell’intervista dice “anziani”. Per me c’è differenza: vecchio è ciò che è in declino inesorabile eppure resiste al nuovo, abbisogna di una spallata perché venga buttato giù. Anziano comporta sì il concetto di età avanzata, ma anche quello di saggezza e autorevolezza nello svolgimento di una mansione raggiunta negli anni. “Solo chi ha molto vissuto” dice infatti Di Consoli “e può finalmente amare senza condizionamenti la propria terra, può pensare di spendersi per gli altri”. Senza condizionamenti. È un passaggio importante in un luogo dove in molti casi non si fa il sindaco dopo essersi guadagnati l’indipendenza economica (e dunque anche una certa resistenza al ricatto del bisogno), ma lo si fa per camparci, almeno per un po’ di tempo (con ovvi rischi di mettere le dita nella marmellata o scialare la cassa). E la rivoluzione, quella di cui qui si parla, non è quella che si fa a fucilate nelle strade, ma quella che si è disposti a fare ogni giorno interiormente. In tutti e due i casi, comunque, pochi la fanno. Ma storicamente è sempre stato così. Gli altri però, poi, convintisi, hanno seguito entusiasti.
Antonio Celano
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