4 minuti per la lettura
di NICOLA FIORITA
La vicenda di Kate Omoregbe è giunta, per fortuna, a uno splendido lieto fine. Fa bene al cuore leggere in questi giorni sui giornali locali e nazionali i resoconti della solidarietà, della mobilitazione civica che hanno accompagnato l’uscita della giovane nigeriana dal carcere e il suo trasferimento nel Cie di Roma. Come è noto, Kate ha appena terminato di scontare una condanna e rischiava di essere espulsa dal nostro Paese e di dover tornare in Nigeria, luogo in cui avrebbe potuto andare incontro alla lapidazione per essersi rifiutata di sposare un uomo anziano di fede islamica e di convertirsi all’Islam. Come tutti, sono felicissimo che questo pericolo sia stato sventato e che Kate abbia ottenuto quel provvedimento che le permette di restare in Italia, dove vive ormai da molti anni e dove intende realizzare il proprio progetto di vita. Ma prima che i riflettori della stampa si spengano, forse vale la pena introdurre qualche riflessione ulteriore su una vicenda che ha emozionato l’opinione pubblica non solo calabrese. Le prime dichiarazioni di Kate si sono rapidamente trasformate con il passare dei giorni e il rischio di lapidazione è divenuto nelle ultime cronache di uno dei maggiori quotidiani nazionali la sicurezza di una condanna a morte emessa in Nigeria. Eppure, le circostanze riferite dalla giovane nigeriana appaiono sotto molti profili incerte e approssimative. Basterebbe in proposito notare che la Nigeria è uno Stato federale e solo in alcune regioni, quelle a maggioranza mussulmana, si applica il diritto islamico, che lo Stato di origine di Kate è a maggioranza cristiana, che Kate e la sua famiglia sono cristiani e che il Corano riconosce il diritto dei cristiani di professare a determinate condizioni la propria fede, che la lapidazione laddove è prevista è pena che riguarda le adultere e non coloro che rifiutano di contrarre matrimonio, che non vi è alcun obbligo di conversione all’Islam per le donne che sposano un musulmano, che Kate ha lasciato la Nigeria da più di 15 anni e nulla sappiamo della sorte dell’anziano uomo che avrebbe dovuto sposare. Sia chiaro: per quanto mi riguarda, questi dubbi – sorti dalla lettura dei giornali e magari facilmente superabili con l’acquisizione di altri e più precisi dati – nulla tolgono al diritto di Kate di inseguire i propri sogni, di fuggire dalla miseria, di liberarsi di una famiglia o di un contesto sociale oppressivo e autoritario. Ma certo, colpisce la solerzia e l’approssimazione degli interventi di due ministri della Repubblica, che si scagliano lancia in resta contro il solito Islam totalitario e liberticida o che si precipitano a dichiarare che Kate verrà salvata dalla condanna a morte che la attende in Nigeria. Ecco, forse è proprio questo il punto centrale. Kate non deve essere salvata dalla Nigeria, che non la cerca, che forse non l’ha condannata e che magari mai la perseguirebbe, ma deve essere salvata dalla nostra legislazione, dal sistema giuridico italiano che continuava a negare il diritto di vivere nel nostro Paese ad una donna che qui ha radicato la propria esistenza e che ha pagato tutti i suoi debiti con la giustizia, come continua ad ostacolare il riconoscimento della cittadinanza ai figli degli immigrati che nascono in Italia, come continua ad espellere uomini e donne che lavorano nelle nostre città e che nelle nostre città hanno affetti, legami e speranze di sopravvivenza. Mi auguro davvero e con tutte le forze che sulla storia di Kate continui a soffiare il vento della fortuna e sono orgoglioso che l’istituzione cui appartengo si sia impegnata a intervenire in suo favore, e se un giorno questa donna entrerà davvero in una delle aule dell’Università della Calabria sarò lì ad accoglierla e ad omaggiare la sua nuova vita. Ma è con sofferenza che osservo come le nostre pigre e grasse coscienze abbiano necessità di un nemico – di un Islam brutto, sporco e cattivo – per uscire dal torpore e finalmente accendersi. Ci sono altre migliaia di Kate che aspettano una possibilità, che meriterebbero una possibilità, e sarebbe dovere di tutti noi fare in modo che anche chi non ha la fortuna di intrecciare la propria storia con una narrazione così attraente possa comunque vivere con dignità nel posto in cui ciò gli è possibile, nel luogo che sceglie, nelle forme che gli appartengono.
*docente Unical
COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA