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4 minuti per la lettura

CARO Paride,
ti confesso che non riesco a nascondere un sentimento di stupore e di gioia per i tanti (Logozzo, Galella, Collazzo, Lapolla, Coviello, Potenza, Albano, Massaro, D’Ecclesiis, Pascale ecc.) che hanno sentito la necessità di dire la loro, di emendare 290771le mie parole, di aggiungere un punto di vista originale, un’idea personale, una diversa prospettiva dello sguardo, un tassello di passione. In quale altra regione c’è tutta questa necessità, quest’urgenza, questa generosità di raccontarsi, capirsi e sviscerarsi – esponendosi a critiche e a incomprensioni – che abbiamo noi lucani? Peccato che la nazione intera ci valuti soltanto per il Pil negativo, e non sappia prendere in considerazione questa nostra attitudine alla riflessione, alla condivisione delle idee, delle rabbie e dei sentimenti. Di questo sono felice e orgoglioso, oggi più che mai. Non perché le mie parole siano state al centro di un dibattito, ma perché le mie parole sono state accolte da centinaia di persone, e sono diventate qualcosa di corale. Voglio solo aggiungere due cose, in questo mia lettera, e traggo spunto dalla tua eccellente risposta di ieri alle solite 292196critiche, non solo inesatte, ma anche polverose, di Nicola Piccenna, che non ha colto l’aria nuova di quel che sta accadendo in Basilicata, essendo fermo nostalgicamente e parossisticamente ai tempi – ormai passati, grazie a Dio – in cui il cambiamento veniva auspicato per mezzo delle indagini, dei processi e dei clamori mediatici. Non siamo più nel 2006 e questo, lo capisco, può dispiacergli, ma non può dispiacere a quanti come me conoscono le cavolate e le menzogne mediatico-giudizarie che sono state dette e propagandate per fini che ignoro, ma che immagino, sia pure con infinita tristezza e sgomento.
La prima riguarda il tema dell’identità. Anche io, come tutti i baumaniani, sono un difensore delle identità “liquide” e ibridate, ma ho paura che non voler ammettere di appartenere a una terra conchiusa (a un ethos preciso) sia segno di deresponsabilizzazione, e quindi di ineffettualità intellettuale, nonché affettiva. In questo senso, nella mia vita, anche quando ho parlato d’altro, ho sempre parlato di Lucania. La seconda cosa, invece, mi sta molto più a cuore. Non so se le classi dirigenti se ne stiano accorgendo, ma anche un dibattito come questo dimostra inequivocabilmente che l’aria sta cambiando. Me ne accorgo dal modo di scrivere e di parlare dei miei conterranei. Sono cioè lontani gli anni dei messaggi obliqui, delle frasi cifrate, dei silenzi calcolati, e questo cambiamento lo si deve a te, che hai dato spazio a linguaggi che fino a oggi sono stati relegati nella marginalità (e mi chiedo come sia potuto diventare segretario regionale del Pd un ragazzotto pavido e obbediente come Roberto Speranza). Un’aria nuova di franchezza, di sincerità, di vera discussione sta spazzando via una ritualità socio-politica vecchia, a tratti goffa, fatta di ricatti, sputtanamenti mediatico-giudiziari, interessi personali (mascherati da spirito di servizio pubblico), e arroganze, molte arroganze. Ora però, a questo punto del dibattito, la cosa importante è che nessuno si approfitti di questo clima di autoanalisi e di discussione franca che la Basilicata sta vivendo per accrescere il proprio potere personale, perché nessuno può permettersi il lusso di tradire con la fame di poltrone questi sentimenti puri che stanno sbocciando, e che sono la parte più sacra della nostra comunità, e che vanno difesi dal rischio dell’ennesima delusione. Quello che occorre, in altri termini, è un’avanguardia sociale e intellettuale che volti per un po’ le spalle alla politica politicante (ovvero alla politica del consenso, delle cariche, delle ritualità obsolete). Nel senso che il cambiamento dovrà farlo liberamente la società intera, relegando la politica nella postazione di retroguardia e d’irrealtà nella quale si è vergognosamente accomodata. Chiunque tentasse di trasformare questi sentimenti che stanno nascendo in voti elettorali spezzerebbe un processo “rivoluzionario” che ci potrebbe portare molto lontano. Ma a condizione che nessuno lo svenda per un piatto di lenticchie, o per una stupida candidatura. Perciò io dico: è arrivato per tutti noi che amiamo la Lucania il tempo del dare e non dell’avere. Non chiediamoci cosa la Lucania possa fare per noi, ma chiediamoci con umiltà e passione cosa possiamo fare noi per la Lucania. Se riusciremo a cambiare e a migliore anzitutto noi stessi (uno per uno, casa per casa, bambino dopo bambino), sono sicuro che verrà un tempo che anche chi farà politica non sarà più soltanto un assetato di potere e di danaro (una delle tante lingue di legno che difendono un sistema ridicolo che garantisce, chissà perché, emolumenti a vita, stipendi assurdi, che chi lavora nemmeno si sogna). Distruggiamo pure, perciò, un brutto sistema di satrapie, senza però avere fretta di crearne subito un altro, perché assomiglierebbe troppo a quello appena distrutto (non è questo il fallimento di tutte le rivoluzioni?). Sforziamoci di rimanere per strada, nei campi, nei bar, con gli amici, nei luoghi di lavoro, con le poche cose che abbiamo, con la forza delle idee e delle passioni. Nei palazzi del potere lasciamoci le anime morte e i rimestatori che tutti conosciamo. Perché la malattia da cui tutti dobbiamo guarire si chiama proprio potere. Il primo veleno è lui. E, chi più e chi meno, ne siamo tutti ammalati. Dobbiamo avere certamente fretta di cambiare e migliorare, ma facciamolo con lentezza e con intelligenza.

Andrea Di Consoli

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