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di ANNA FALCONE
La strategia che non c’è. Questo si evince dal breve, imbarazzato e imbarazzante, intervento di Tremonti sulla ricetta economica del Governo per uscire dalla crisi e dalla stretta dei mercati e della speculazione finanziaria sull’Italia. Ammesso, con sforzo, che la crisi c’è, il ministro dell’Economia si è presentato alle commissioni Economia e Affari Costituzionali di Camera e Senato senza alcun prospetto tecnico delle misure da attuare, senza un piano strategico, senza idee, se non quella di sviare l’attenzione proponendo l’ennesima, ‘santa’, riforma costituzionale, inserendo nella Legge Fondamentale dello Stato il vincolo del pareggio di bilancio. Il ‘male’ sta sempre lì. Quasi un ossessione ‘salvifica’ quella di mettere le mani sulla Costituzione. Peccato che serva ben altro per salvare il Paese dal rischio default. Eppure, perché perdere l’occasione di assestare un altro colpo alla sovranità popolare, alla libertà di programmazione politica di un Paese ed allo Stato sociale di diritto? Il momento è favorevole e la ‘paura’ indotta potrebbe orientare l’opinione pubblica verso una ‘ragionevole accondiscendenza’ circa la riforma. Modificare l’art. 81 Cost., inserendo accanto al vincolo della copertura finanziaria delle leggi, il vincolo del pareggio di bilancio, schiaccia, infatti, le politiche sociali assoggettandole alle ‘preminenti’ ragioni dell’economia e a poteri economici anche extranazionali, non sovrani e non controllabili democraticamente. Molto diversamente da quanto avviene nella Costituzione tedesca – che prevede un analogo principio per regolamentare l’equilibrio dei conti pubblici e il rapporto fra centro e periferia di uno Stato espressamente federale – e dalle misure temporanee e sovranazionali previste dal Trattato di Maastricht, dal Patto di Stabilità e Crescita e dal recente Patto Europlus (di cui alle decisioni del Consiglio europeo del 24 e 25 marzo 2011), la prospettata modifica dell’art. 81 della Costituzione italiana si presta a reimpostare stabilmente l’ordine di priorità fra Stato di diritto e mercato, fra cittadini e istituzioni nazionali e sovranazionali, riconoscendo alle regole eteroimposte della finanza globale una ‘imperatività’ potenzialmente superiore alle leggi del Parlamento e, quindi, alla volontà popolare. Il rischio è quello di impedire aprioristicamente investimenti di lungo periodo, in infrastrutture, sviluppo e sociale, pur coperti da un piano di rientro. Misure spesso necessarie e utili, ma a volte e a determinate condizioni, poco gradite a chi detenga porzioni di debito pubblico, o tenti, tramite le leve dell’economia globale o il controllo sulle agenzie di rating, di condizionare le scelte politiche di uno Stato dall’esterno. Ma, ancor più gravemente, considerata la fonte da cui promana la proposta di riforma, la modifica dell’art. 81 Cost. non servirebbe in alcun modo ad uscire dalla crisi: per attuare una riforma costituzionale servono, infatti, non meno di sei mesi, volendo immaginare l’accordo con buona parte delle opposizioni, tempi strettissimi e un’agenda politica contingentata. Per l’economia italiana servono misure urgenti e di immediata spendibilità. E queste misure non possono consistere in tagli orizzontali a stipendi e pensioni, nonché – questa sì una misura preoccupante anche per l’economia – nella libertà di licenziamento (!). Una scure pesantissima su classe media e fasce deboli che pare voler ignorare sprechi, economia sommersa e classi abbienti..Altro che le ‘parole di verità’ con cui, all’esito dell’intervento di Tremonti, ha voluto ‘illuminarci’ Angelino Alfano, tentando di incensare il ministro e colmare le lacune della sua fragile relazione. Anche la sussurrata proposta di aumentare fino al 20% la tassazione sulle rendite finanziarie non appare una misura adeguata, poiché, lungi dal colmare l’ingiustificata forbice fiscale fra l’imposizione sui redditi da lavoro (soprattutto dipendenti) e le rendite da capitale, ancora una volta, mira a parificare la condizione, e la percentuale di contribuzione, dei piccoli risparmiatori e quella dei grandi capitali. Esiste un principio – già scritto in Costituzione – che conforma il sistema tributario a un criterio di progressività della pressione fiscale in proporzione alla ricchezza prodotta e/o posseduta. Tanto a significare, in attuazione di un criterio di uguaglianza perequativa, un diverso grado di responsabilità di ogni cittadino o soggetto economico nella contribuzione sia ordinaria che straordinaria. In un momento di crisi di tale gravità, ignorare tale principio e tentare di agevolare, o addirittura escludere, i grandi patrimoni (per non dire i grandi evasori) da ogni forma di giusta, proporzionale, equa partecipazione alle misure anticrisi è illegittimo e, questo si, incostituzionale. In sintesi: in mancanza di vero piano di rientro e rilancio dell’economia, ogni misura ventilata continuerà a gravare sulla pelle della vera classe produttiva del Paese e, in uno, della più vessata: dipendenti a reddito fisso, precari di grandi talento e quasi nessuna retribuzione, piccoli artigiani, commercianti e piccoli imprenditori, per non parlare dell’infinito popolo delle partite IVA e di quei professionisti che si ostinano a lavorare onestamente, nonostante l’attuale Governo continui a sostenere le acrobazie dei ‘furbi’, offendendo l’onestà e l’impegno di quei lavoratori rispettosi delle leggi. Iniziamo a far pesare noi alcuni evidenti verità: il pareggio di bilancio non serve a nulla se, oltre a tagliare i costi della politica, non si finanzia la crescita e non si aiutano i giovani a costruire il loro futuro. Il pareggio di bilancio non serve a nulla se non si inizia a perseguire seriamente l’evasione fiscale – vero cancro dell’economia italiana – inserendo anche misure premiali e di vantaggio per la tracciabilità dei pagamenti, l’emersione del sommerso e del lavoro nero. Il pareggio di bilancio non serve a nulla se non si radica nelle scelte pubbliche un principio di giustizia perequativa, di solidarietà e di meritocrazia, che scardini il sistema familistico su cui poggia il riconoscimento dei diritti, l’ingresso nel mondo del lavoro, l’accesso alle professioni più prestigiose e, non ultimo, alle ‘carriere politiche’. Il pareggio di bilancio non serve a nulla se non si blocca in Italia la deriva – quella si neomedievale, caro Tremonti – della corruzione e della imposizione di mille baronie su istituzioni e ‘feudi’ locali, che proprio sulla ‘eventualità’ di diritti fondamentali, come salute e lavoro, sulla loro degradazione in ‘piaceri’ fonda la sua pseudo-legittimazione formale e struttura la macchina del consenso e del voto clientelare. La lettera della BCE ha di fatto commissariato l’Italia in Europa, ed è un commissariamento politico, prima che economico, perché questo Governo – non l’Italia – non è ritenuto all’altezza del compito di risanamento e rilancio dell’economia sociale e del lavoro – non solo di mercato – a cui è chiamato il Paese. In tutto ciò il Sud – forse l’unica risorsa il cui lo sviluppo proiettato nel nuovo Mediterraneo che va delineandosi potrebbe davvero dare un colpo d’ali all’intera economia del Paese – semplicemente non esiste. Così come non si sentono, o forse non esistono, in questo dibattito, le voci di troppi rappresentanti politici meridionali. Silenzi diversi, parimenti colpevoli e inaccettabili. La prima riforma di cui ha bisogno il Paese è, allora, e senza ritardo, una rottura con le ipocrisie di una democrazia meramente formale, slegata dalle priorità dei cittadini e dall’evidenza che non può esserci alcuna uscita dalla crisi che non preveda il rilancio di un nuovo Stato sociale di diritto, che sposti sul sociale le spese della casta e gli sprechi di uno Stato piegato alle esigenze di un ceto politico tanto elefantiaco quanto inefficiente. Una svolta che passa dalla rottura con il passato di faide e personalismi che ha anchilosato anche il vecchio centrosinistra, alla costruzione di una nuova alternativa politica e culturale per il Paese, al definitivo superamento di una classe dirigente, mediocre e irresponsabile nella maggioranza, stantia e debole nelle opposizioni, genuflessa ai segretari di partito e piegata alla sua sterile autoconservazione al Sud. L’Europa ha già anticipato l’impossibilità tecnica di recuperare l’Italia in caso di default: il Paese è troppo più grande e ‘ingombrante’ di Grecia, Irlanda e Portogallo, e Francia, Inghilterra e Germania non intendono accollarsi il peso economico del salvataggio di altri Paesi europei. Ma se non sarà l’Europa a staccare la spina ad un Governo deciso a portare il Paese allo sfascio, pur di non ammettere il suo fallimento, dovranno farlo gli italiani, ed i meridionali in primis. Perché da questa crisi noi non usciremo, non siamo in grado di uscirne con misure decise, o non decise, da altri, ma solo prendendoci la responsabilità di un nuovo ciclo economico, politico e sociale che metta il Mezzogiorno al centro di un nuovo sviluppo euromediterraneo e un nuovo centrosinistra, interprete di un diverso modello di economia sociale di mercato, unito e credibile, per uomini e idee, al centro di una nuova stagione politica. Cedere ai ricatti dei mercati non è l’unica soluzione. Un’altra via d’uscita è possibile: Islanda docet. E qualora dovessero concretizzarsi gravi anomalie al principio di progressività nell’imposizione fiscale, e con esso ai principi democratico e di uguaglianza, pilastri e fini del nostro ordinamento e vincolo dei pubblici poteri, il diritto di resistenza a riforme ingiuste, vessatorie, o addirittura incostituzionali diventerebbe un’ipotesi da prendere seriamente in considerazione. Un dovere civile e politico, quasi più che un diritto. Mai come ora è tempo di assumersi, singolarmente e insieme, le proprie responsabilità.

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