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di FULVIO LIBRANDI

Forse come non mai, oggi la Calabria meritebbe di essere osservata da una prospettiva diversa. Oggi non siamo più la regione che non fa i conti con se stessa, che evita di guardare il suo male e che insegna ai figli a misconoscerlo; al contrario, della ndrangheta abbiamo una migliore conoscenza, spieghiamo a chi vive al Nord le sue ramificazioni, le sue logiche e i metodi per contrapporsi. Il serrato contrasto alla ndrangheta credo ci stia conferendo collettivamente una nuova dignità. Non sto naturalmente parlando di un cambio di mentalità –restiamo sostanzialmente un popolo omertoso-, né credo che la ndrangheta sia stata ferita a morte. Non dobbiamo però dimenticare che fino a pochissimi anni fa si parlava –per quel poco che se ne parlava- della ndrangheta come di un’organizzazione inconoscibile e quasi ineffabile, permeata da un alone mitico che ne sanciva l’ineluttabilità. Il nuovo modo che abbiamo oggi di conoscere la ndrangheta, i suoi affari, le sue facce, indica che questa volta qualcosa è accaduto realmente, e in una terra reversibile come la Calabria, dove nulla accade mai davvero, questo è un fatto straordinario.
Il motore di questo cambiamento è senz’altro l’opera dei magistrati e delle forze dell’ordine, che, da un lato, hanno fatto segnare successi insperabili fino a qualche anno fa; dall’altro hanno dato forza alle parole di chi si occupa di contrasto culturale, che oggi può affermare che un cambiamento è possibile senza che venga preso per pazzo. Come ho detto altre volte su questo giornale, gli arresti, i sequestri, hanno una valenza culturale che è importante almeno quanto quella giudiziaria.
Il discorso è valido in generale, ma provo ad argomentare rifacendomi alle attività della Procura di Reggio Calabria che conosco meglio. L’operazione “Crimine” è forse quella dirimente, perché ha contribuito a far diventare il problema ndrangheta di ordine nazionale. Com’è noto, l’indagine, in seguito alla quale sono state arrestate circa 300 persone tra Calabria e Lombardia, ha consentito di delineare l’esistenza di una struttura centrale denominata “Provincia” o “Crimine”, con il compito di controllare e validare le singole strategie mafiose, e di dirimere le controversie. Quelle prese a Reggio venivano considerate decisioni sovrane, valide quindi sia sul territorio nazionale che all’estero, e naturalmente insindacabili. Al Nord l’effetto di “Crimine” è stato dirompente, ed è diventato impossibile continuare a sottovalutare la funzione criminale di una mafia, abile al punto da inserirsi nei meccanismi della politica e dell’economia in modo da sembrare un elemento fisiologico e non patologico. L’operazione “Crimine” costituisce un modello di scuola, che di certo ha influenzato altre grandi operazioni antindrangheta eseguite al Nord Italia, soprattutto in Liguria e in Piemonte, ma anche in Emilia Romagna e nel Lazio (si pensi solo all’eco che hanno avuto a Roma i sequestri di locali storici come il Café de Paris, o l’Antico Caffè Chigi a due passi da Montecitorio). L’aumento di consapevolezza al Nord abbia ha favorito una nuova modalità di approcciare il problema al Sud, dove l’attività di repressione è stata intensa, organica, costante nel tempo. La quantità e la qualità delle operazioni messe a segno, le famiglie colpite, il rango degli arrestati, il livello dei latitanti -scovati ovunque fossero-, gli enormi capitali sequestrati, non hanno consentito questa volta, a noi calabresi, di girare lo sguardo dall’altra parte. Le operazioni di polizia sono diventate nel tempo una parte di un discorso collettivo che è importante tenere vivo.
Un punto chiave di questa stagione è l’attacco sistematico alla zona grigia, che è di importanza nodale per gli affari della ndrangheta e, forse peggio, per il consenso sociale che le garantisce. Sono stati condannati consiglieri regionali di questa e di precedenti legislature, come Zappalà, Crea, La Rupa; condannati o inquisiti diversi imprenditori, i sindaci -o ex sindaci- di Siderno, di Seminara, di Marina di Gioiosa Ionica, di San Procopio, sciolti molti comuni. Sono identificati e perseguiti una moltitudine di funzionari pubblici, tecnici, imprenditori, professionisti, risultati organici all’organizzazione mafiosa. Scalpore ha destato l’arresto di Giovanni Zumbo, noto e insospettabile professionista reggino che aveva contatti stretti con politici e imprenditori della città. Particolarmente grave appare l’arresto del capitano dei carabinieri Spadaro Tracuzzi, le accuse contro il quale, se confermate nell’iter processuale, costituiscono un vulnus al tessuto sociale della regione.
Un altro aspetto dalla notevole valenza culturale di quest’azione è la presenza dei pentiti, che in Calabria da qualche tempo mancavano. Il pentito è l’“errore” del sistema familistico, il baco interno, che rende l’organizzazione meno granitica nell’immaginario collettivo. Nella metodologia della Procura di Reggio le dichiarazioni dei pentiti non hanno valore in quanto tali, ma servono  ad avvalorare ipotesi investigative, a individuare nessi peculiari in trame più ampie, quasi sempre già ricostruite con metodi di indagine tradizionali. Le conferme nei vari gradi degli iter processuali sono la prova della bontà delle indagini, dell’attenzione alla verifica dei riscontri, della correttezza procedurale. Credo che meriteremmo di essere guardati in modo diverso, anche solo perché non siamo più la terra dove i processi di ndrangheta evaporano nel silenzio generale, ma arrivano all’ultimo grado di giudizio, con ricadute potenzialmente notevoli sul piano della mentalità collettiva.
Credo inoltre, e convintamente, che questa nuova attenzione alle dinamiche della mafia possa e debba servire a valorizzare maggiormente il lavoro di quei magistrati che negli anni passati, talvolta in solitudine, hanno portato avanti con passione e metodo operazioni di grandissima rilevanza, rischiando molto, e nella quasi indifferenza dell’opinione pubblica. Solo con questa coscienza si può creare una mappa cognitiva utile per orientarsi in un discorso che non deve tornare a essere oscuro.
Naturalmente siamo calabresi, e anche se venisse arrestato il criminale più potente della terra qualcuno commenterebbe: “si, però i marziani non li indagano”, ma non è questo il punto. Il punto è che oggi si può continuare a essere ciechi, ma a condizione di non avere rispetto di sé.
Sono contento di vivere questo momento della Calabria sapendo che a Reggio operano persone della tempra e dell’integrità di Renato Cortese, capo della Squadra Mobile della Questura, e di Stefano Russo comandante del Ros dei Carabinieri. Pur sperando che avvenga più in là possibile, non temo per la partenza del procuratore Pignatone, perché lo rispetto molto, e so che è nel giusto quando sostiene che la forza dello Stato deve prescindere dalla forza del singolo, e che la magistratura svolge solo una parte della lotta alle mafie, nella quale l’attore più importante resta sempre la società intera. Ma è innegabile che negli ultimi anni abbiamo accumulato un tesoro, anche simbolico, e che ognuno, nel suo ruolo, deve averne consapevolezza e cura, perché disperderlo –e ne siamo capaci- questa volta è davvero un peccato mortale. Ciò che temo è la nostra capacità di dimenticare, di non trarre insegnamento da quello che è stato e che è, di tornare di nuovo al nostro destino di disgrazie come le pecore tornano all’ovile. Riuscissimo questa volta a smuoverci dalla nostra atavica catatonia ne trarremmo insegnamenti importanti, utili magari per far crescere una nuova generazione libera, libera da tutto, tranne che dall’intelligenza e dall’amor proprio.

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