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di FRANCESCO MOLICA*
Sulle sorti della sede della Regione Calabria a Bruxelles è calato da mesi ormai un sipario di inquietante silenzio. Non ne parla la stampa regionale, che in passato ha accordato pochi ed episodici spazi alla vicenda, men che meno la politica locale, a prescindere dalle diverse casacche d’appartenenza. La caduca parabola percorsa dal nostro ufficio di rappresentanza presso l’Ue è durata del resto appena due anni. Inaugurato nel 2008 con gran fanfara dall’allora governatore Loiero – un atto dovuto benché tardivo se si pensa che, ad esempio, la delegazione della Emilia-Romagna è presente nella “capitale d’Europa” dal 1999 – è stato messo sotto sigillo dal presidente Scopelliti a breve distanza dal suo insediamento. Per la neoamministrazione di centrodestra si trattava in quella particolare contingenza di inviare un segnale di trasparenza (e discontinuità) all’opinione pubblica, sbarazzandosi di una di quelle miriadi di sprechi di cui la Calabria è primatista. Un motivo sintetizzato dall’assessore al Bilancio e alla Programmazione comunitaria Mancini: la sede di Bruxelles “costa molto e produce poco” aveva lanciato l’allarme, fresco di nomina, nell’aprile del 2010. Assicurando tuttavia di riavviarne le attività in tempi rapidi attraverso l’innesto di “giovani intelligenze della nostra terra” sotto la guida “di dirigenti brillanti”. Tale impegno resta, più di un anno dopo, solo sulla carta, malgrado l’attuale governatore lo abbia rinnovato in numerose occasioni pubbliche, arrivando finanche a suggerire il nome di Serena Angioli, ex dirigente del comune di Reggio Calabria nonché assidua frequentatrice dei corridoi istituzionali di Bruxelles, come papabile alla direzione dell’ufficio in vista della sua imminente riapertura. E’ comprensibile che il presidente Scopelliti abbia dovuto per qualche tempo congelare la vertenza essendo alla prese con grane ben più impellenti, a cominciare dal buco nel bilancio della sanità. Ma, mano a mano che il tempo passa, la ragione presumibile dell’inazione sul punto comincia a scricchiolare. E con esso le motivazioni che hanno condotto alla chiusura temporanea della rappresentanza europea della Regione Calabria. Invero, da quel che ci risulta, almeno fino a pochissimo tempo fa la Regione non aveva ancora disdetto il contratto d’affitto dei suoi locali di Bruxelles. Nulla da eccepire: sarebbe scellerato perdere un ufficio dalla logistica preziosissima (sorge dirimpetto le sedi centrali della Commissione Europea e del Consiglio Ue). Colpisce però che, proprio in un momento in cui sul tavolo della giunta si affastellano svariati e delicati dossier in cui l’Unione Europea è controparte, laRegione non possa avvalersi di un utile dispositivo di rappresentanza presso le istituzioni comunitarie. Si pensi solo alla recente cancellazione del corridoio Berlino-Palermo, che prevedeva tra gli altri la ristrutturazione del porto di Gioia Tauro, dalla lista dei “grandi progetti” finanziati dalla Commissione. Oppure all’annosa questione dei fondi strutturali, sul cui tardivo impiego la Calabria ha ricevuto a fine luglio l’ennesima tirata d’orecchi da parte dell’esecutivo europeo e una buona parte dei quali, a partire dal 2013, potrebbero essere dirottati verso le regioni povere dei nuovi Stati membri privandoci di un importante strumento di sviluppo. Queste ed altre battaglie, presenti e future, non possono essere combattute con proclami a distanza od occasionali blitz nella capitale belga. Nati per offrire expertise alle amministrazioni locali proprio nella complessa gestione dei finanziamenti europei, le rappresentanze regionali si sono oggigiorno tramutate in un fondamentale apparecchio di lobbying per far sentire sulla piazza europea la voce e le esigenze delle singole realtà territoriali. A fortiori in un contesto dove centinaia di interessi pubblici e privati incrociano quotidianamente le armi per influenzare le politiche europee. La Baviera, a cui certo non si potrà rinfacciare una cultura amministrativa di sprechi, mantiene a Bruxelles qualcosa come 50 funzionari. Alla Calabria ne basterebbero un ventesimo per non essere abbandonata a se stessa da un’Unione Europea che, come insegnano le recenti crisi in Grecia, Irlanda e Portogallo, appare sempre più riluttante all’idea di aprire i cordoni della borsa senza adeguate garanzie e prospettive di utili investimenti.
*Coordinatore associazione Gli Euros
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