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di LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI
In queste ultime settimane il mondo degli appassionati del Rock, ma non soltanto esso, è stato profondamente turbato dalla drammatica morte della cantante Amy Winehouse, avvenuta il 23 luglio a Londra a 27 anni, idolo venerato per le indubbie qualità della sua voce. Un’inchiesta tenterà di far luce sulle modalità di tale tragico evento, ma allo stato attuale non è facile prevedere se si potrà giungere alla verità di quanto è realmente avvenuto. Anche se uno squarcio su tutto ciò lo aprono le parole della madre che ha dichiarato che quanto si sono dette con la figlia nel loro ultimo colloquio resterà un fatto privato, ma che questa morte non è giunta certo inattesa. Né può essere trascurato il ricordo di tante e tanti artisti del rock – da Jim Morrison a Janis Joplin, a Jimi Hendrix e tanti altri – morti per overdose o circostanze rimaste misteriose. Qui vorrei soffermarmi su altri aspetti che mi sembrano significativi, anche per intendere la società contemporanea, le sue ineludibili esigenze. Appena si è diffusa la notizia della sua tragica scomparsa, moltissimi fan della rockstar hanno deposto dinanzi alla sua abitazione fiori, bicchieri a calice ricolmi di vino, bottiglie di vino, scritte di omaggio e di esaltazione. Le fotografie riportate da tutti i giornali lo documentano ampiamente. A parte l’evidente connessione del vino con il nome della cantante, può sorprendere a prima vista che i giovani rockettari ricorrano per rendere omaggio alla loro icona alle stesse modalità con le quali nell’“arcaico” Sud di Italia si accompagnano i rituali dal distacco dei familiari defunti, per delineare per loro un’esistenza pacificata nell’aldilà. Ho avuto modo più volte di riprendere su questo nostro giornale i risultati delle ricerche di Mariano Meligrana e mie sull’ideologia della morte nelle regioni meridionali, pubblicate nel nostro “ Il ponte di San Giacomo”, per il quale abbiamo attinto alla letteratura demo-antropologica, a rilevazioni scientifiche compiute direttamente o attraverso indagini effettuate, sotto la nostra guida, da studenti dell’Università di Messina. Per quanto riguarda l’argomento qui trattato, si può ricordare che secondo un’attestazione demologica ottocentesca, “nelle credenze calabresi i morti nel mettersi in viaggio per l’altra vita han bisogno di acqua e di pane. Se ne deduce che il loro viaggio è considerato simile a quello dei vivi: partono quelli come partono questi con pane e borraccia” (V. Dorsa). Questa modalità, oltre a riflettere il regime alimentare essenziale dei viandanti poveri dell’epoca, testimonia esplicitamente, nella sua stringatezza, la similarità tra il viaggio “realistico” e il viaggio “mitico” dell’anima. Si tratta di una dimensione mitica che non si contrappone totalmente alla concezione popolare di realtà, ma che, pur nella sua diversità, si dispiega secondo moduli in un certo senso realistici. Da questa equiparazione discende la necessità culturale di dotare il morto di tutti quegli oggetti (monete, indumenti, carta d’identità, attrezzi da lavoro o giocattoli nel caso di bambini) di cui ci testimonia il folklore meridionale. Alcuni di essi, nella concezione mitologica popolare, servono strettamente all’espletamento del viaggio, anche se le valenze dell’uso sono molteplici e disposte a diversi livelli di consapevolezza; altri si proiettano oltre il viaggio e si pongono come strumenti di domesticazione dell’aldilà, conformemente all’immagine popolare del mondo ultraterreno. In ogni caso, concorrono a sostenere la presenza del morto contro il rischio, immanente al viaggio e alla sua alternanza di vuoto e di pieno, dello smarrimento e della nullificazione. Corredo come supporto della presenza, dunque, come continuazione sbiadita di quel rapporto di intensa implicazione reciproca che lega gli uomini e oggetti nella vicenda storica contadina. Mentre il defunto compie il suo decisivo viaggio verso il regno dei morti, i superstiti hanno il potere di agevolarne il percorso con l’osservanza di prescrizioni o di divieti, cui viene riconosciuta capacità di influenza, positiva o negativa, sulla condizione del morto. I superstiti possono compiere azioni atte ad agevolare e a orientare il viaggio dell’anima. La finalità di alcune di tali azioni rituali è esplicitamente orientata a che il morto non avverta pena; nella zona di Siderno, subito dopo il decesso, si accende per un mese una lampada ad olio e i “dolituri” – così vengono chiamati i familiari del defunto – curano nei giorni successivi che la fiamma non si spenga, altrimenti il morto “potrebbe sentire pena e non raggiungere il mondo celeste”. Si tratta di un procedimento che, attraverso la visualizzazione simbolica, persegue una similarità tra la vita della fiamma e viaggio dell’anima. Nel territorio di Penne, in Abruzzo, subito dopo il funerale “vengono bagnati […] i panni che l’estinto indossava e così pure le lenzuola e i materassi, “per rinfrescare l’anima al morto”. Nessuno piange, altrimenti l’anima potrebbe scivolare per via: “se si paingue ji s’allisscica la strada”. Le molte lacrime bagnano la camicia del morto, e lo impacciano di andare nella sua via: le troppe lacrime rendono sdrucciolevole la strada che il defunto ha da fare per essere al luogo del suo riposo. “Se non si smette di piangere l’anima dell’estinto non può trovar riposo; e infatti, un giovane morì ammazzato, ed era portato al camposanto. La madre e la sorella, che dalla finestra vedevano portar via il morto, ricominciarono i pianti e le grida, chiamando il povero estinto. Il feretro si fece così grave, che convenne posarlo a terra. Cessati i pianti ridivenne leggiero, e fu facile portarlo a seppellire. Quel peso enorme indicava che il morto penava finché duravano quei pianti della madre e della sorella” (E. Nobilio). Anche il suono delle campane si pone quale azione capace di influire sul viaggio dell’anima; ove esso dovesse mancare, si crede che l’anima del morto si aggirerebbe turbata per la casa. I riti che agevolano o consentono il tranquillo passaggio dell’anima nel luogo del riposo possono essere inoltre sollecitati o indicati da alcune azioni significative del morto. A Pedace, in Calabria, “l’offerta del pane e dell’acqua al morto viene ripetuta per una settimana circa nella stanza dove è stato il cadavere. A mezzanotte l’ombra dell’estinto, lasciando il sepolcro, verrà ad assaggiarlo”. A Celico, secondo l’attestazione di Dorsa, i familiari pongono vicino al cadavere “un tozzo di pane e un boccale con acqua, e badano a chiudere bene l’uscio della porta, giacché se il morto fosse guardato non ne assaggerebbe. “Quei di Trebisacci [= Trebisacce] e di Acri ripetono questa pietosa offerta per tre sere consecutive nella stanza dove è avvenuta la morte, e affermano che l’ombra dell’estinto, lasciato il sepolcro, si presenti a mezzanotte per assaggiarne. Se vi è sospetto che non abbia toccato né un briciolo di quel pane, né una goccia di quell’acqua, dicono che l’anima si aggiri tuttavia fra quelle meste pareti e che abbia bisogno di riti espiatori per recarsi tranquilla nel luogo del suo riposo. “Quei di Albidonna compiono un tale ufficio quando il morente è nelle estreme ore dell’agonia, mettendo sul davanzale della finestra della sua stanza un bicchiere con acqua, perché l’anima, staccata dal corpo, ne bevesse al suo passaggio. […] La letteratura demo-antropologica da Vincenzo Dorsa a Vincenzo Padula, da Raffaele Lombardi Satriani a Elvira Nobilio, documenta ampiamente le modalità delle azioni rivolte al defunto per garantire nonostante tutto un rapporto che la morte ha tragicamente interrotto. La sorpresa di cui dicevo all’inizio scompare e le analogie tra i comportamenti posti in essere a Londra e quelli rilevati dagli studiosi del Sud d’Italia testimoniano il permanere di alcuni bisogni culturali, l’insopprimibile esigenza di proiettare al di là della morte il desiderio di un rapporto, di un legame con chi è ormai lontano dalla realistica dimensione della vita. In ogni società, in ogni cultura sono riscontrabili tali bisogni, siffatte esigenze che si concretano in azioni sostanzialmente simili o in una variegata tipologia, riconducibili comunque alla volontà di mantenere comunque un legame. Nonostante la morte, contro la morte. E così le linee della morte diventano strategia di vita. Irredimibile, insopprimibile.

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