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di MATTEO COSENZA

UNA mattina salì all’undicesimo piano di via Cervantes 55 e chiese di parlarmi. Era fresco di laurea ma covava il sacro fuoco: «Posso collaborare alla Voce della Campania? Voglio fare il giornalista». Non era il primo né fu l’ultimo. Tanti giovani napoletani e campani trovarono in quel quindicinale l’occasione per iniziare questo straordinario mestiere. La selezione era accurata e si faceva sul campo, ma alla mia scrivania si presentarono i migliori che potessero aspirare a questa professione, e tutti, senza padrini né padroni, misero sul tavolo la passione e la bravura, che furono le sole “raccomandazioni” che valsero in quelle stanze. L’elenco sarebbe lungo, ne verrebbe fuori la geografia di un bel pezzo di giornalismo italiano. Ne parlo perché è la seconda cosa che mi frulla nella testa e nel cuore da qualche ora, da quando, angosciato, ho saputo che Peppe D’Avanzo se ne è andato prematuramente, fulminato da un infarto mentre pedalava: io me lo ricordavo giocatore di rugby. Non ci fu storia: lui viaggiava in un altro pianeta e ad un’altra velocità. Gli altri erano bravi, alcuni bravissimi, ma riconoscevano serenamente la sua autorità professionale. Si guadagnava quasi niente, ma ognuno buttava il sangue per realizzare la migliore intervista, la scheda più precisa, l’inchiesta più completa, e l’orologio veniva lasciato fuori dalla porta. Quel giornale fu un’avventura straordinaria, il documento della Campania degli anni Settanta. Peppe conquistò in poche settimane la sua scrivania e il suo telefono e stava lì dall’alba a notte tra montagne crescenti di appunti e documenti. Negli ultimi anni, ogni tanto, leggendo i suoi articoli, specie quelli che hanno scartavetrato Berlusconi presentandocelo nella nudità del suo squallore di “egoarca”, ho ripensato ad un episodio di circa 35 anni fa. Un comune amico mi chiese di incontrare il papà di Peppe, l’avvocato Sabato, una persona d’altri tempi, stimata e rispettata. Ci vedemmo nella sua casa di via dei Fiorentini. Mi disse che era molto preoccupato per il figlio che non mollava un attimo il giornale. Mi chiese a bruciapelo: «Direttore, mi dica la verità: fa bene a seguire questa sua passione o sta perdendo tempo?». Gli dissi che non doveva preoccuparsi: «Non credo che nella Voce della Campania potrà trovare un lavoro, ma le dico con certezza che suo figlio è un giornalista di razza e si farà valere. Stia tranquillo, lo lasci fare». Ricordo che mi ringraziò stringendomi le mani e da quel momento lasciò fare. Ma, detto tra noi, anche se avesse deciso diversamente non avrebbe potuto nulla contro la determinazione e la cocciutaggine del figlio. Implacabile nel mestiere. Qualcuno ha ironizzato sulla sua campagna contro il Cavaliere, su Dagospia lo hanno chiamato il Commissario Davanzoni. Ma, pensate, ha scritto articoli che possono riempire giornali e giornali e il suo bersaglio non ha potuto fiatare, non ha potuto contestare un’affermazione, stigmatizzare una frase, non è stato in grado di sporgere una querela. Perché ogni parola di quegli articoli, di tutti gli articoli che ha scritto nella sua vita, era un fatto, accertato, verificato e dimostrato. Scriveva che “Berlusconi è un bugiardo” e poteva farlo perché aveva messo in fila le bugie una per una. E così via. Quando passai alla redazione napoletana di Paese Sera, lasciando La Voce a Michele Santoro, sapevo che alla prima occasione lo avrei fatto venire. E così fu. Accadde la stessa cosa che era successa alla Voce e che, credo, sarà avvenuta a Repubblica. Peppe si insediò all’ultima scrivania del salone della redazione che affacciava sul teatro San Carlo e lì realizzava il “suo” giornale. Gli chiesi di fare un’inchiesta sulla chiacchierata gestione del Banco di Napoli da parte di Ferdinando Ventriglia. Dopo la prima puntata, ci fu la processione alla sua scrivania: venivano quelli che temevano e quelli che volevano raccontare storie, il telefono era bollente. E per giorni e giorni il Banco di Napoli fu rivoltato come un calzino nelle pagine di Paese Sera. «È proprio bravo». Mi telefonò, quasi per ringraziarmi, Andrea Barbato, un’altra colonna del giornalismo italiano, che rimase a Paese Sera giusto il tempo di capire che la testata era al centro di uno scontro politico-finanziario a Botteghe Oscure. Si era creato un vuoto nell’ufficio di Milano e il vice direttore Ennio Simeone mi aveva chiesto di “dargli” D’Avanzo per un paio di mesi. Dal primo giorno sembrava che Peppe fosse stato tutta la vita a Milano. Quella di Paese Sera fu una storia gloriosa ma anche drammatica. Quando l’editore ne annunciò la chiusura, si decise di mandare in edicola il giornale normale come forma di lotta: una pagina unica di storia sindacale. E per un anno il giornale uscì senza padrone, con le vendite pagavamo la tipografia, noi giornalisti sopravvivevamo con l’indennità di disoccupazione. E poi, quando finalmente si decise di costituire la cooperativa che doveva editare il giornale e si addivenne ad un organico molto ridimensionato, toccò al comitato di redazione decidere chi restava e chi per il momento restava fuori. Ne nacquero grandi e inevitabili tensioni e con Peppe, che restò fuori, ci fu una lacerazione dura che per anni ha segnato i nostri rapporti. Iniziò a collaborare a Repubblica come vice del corrispondente da Napoli, Ermanno Corsi. Ci mise poco a farsi notare. Addirittura fu arrestato per ordine di Pier Luigi Vigna, futuro procuratore nazionale antimafia perché aveva pubblicato documenti riservati che tiravano in ballo nella strage dell’Italicus il boss della camorra Misso. Ovviamente non rivelò la fonte e si fece una settimana in carcere a Cervinara, e, quando uscì, Eugenio Scalfari gli fece trovare la lettera di assunzione. Il resto è ormai nella storia del giornalismo italiano. I suoi scritti sulla mafia, dato per scontato il coraggio, erano ricostruzioni puntuali di scenari che venivano ricomposti tassello per tassello. Era il periodo in cui ci fu l’attentato a Maurizio Costanzo. Che io ricordi, solo allora accettò di partecipare ad un salotto televisivo. Ha sempre declinato gli inviti, Vespa se lo poteva sognare: vedendo il nauseante spettacolo dei teatrini televisivi come dargli torto. Aveva nemici perché aveva la schiena dritta. Ed era un carattere difficile perché aveva carattere. Il suo è stato un modello di giornalismo ormai quasi scomparso, tutto sostanza e fronzoli zero. Articoli anche sterminati per lunghezza ma neanche un aggettivo di troppo. Lascia un vuoto grande nella nostra professione e, per la rilevanza delle sue inchieste, nella nostra malata democrazia. Non ho detto all’inizio qual è la prima cosa a cui ho pensato quando ho saputo della sua morte. Si affollano i ricordi e il dolore è grande. E, mentre ricevo telefonate di colleghi sgomenti, ho pudore a dirlo e sono perfino sconvolto dalla cosa. Ebbene ieri mattina, attorno alle 6, l’ho incontrato per la prima volta in un sogno e mi sono svegliato per andare in bagno dopo una stretta di mano con lui. Ripeto, sono sconvolto e scosso e non so darmi una spiegazione.

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