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di MATTEO COSENZA
PARLIAMO troppo o troppo poco? Discutiamo abbastanza e bene o ritualmente e limitatamente? Il dibattito sulla riedizione del libro, che poi era una vecchia inchiesta giornalistica, di Giorgio Bocca e soprattutto sull’introduzione, questa inedita, di Eugenio Scalfari, si è sviluppato in maniera intensa e tra prevedibili alti e bassi. Un deja vu? Siamo iscritti al partito della discussione, vorremmo essere militanti anche di quello
dell’azione ma in giro al momento se ne vedono pochi per cui occorre
aggrapparsi alle occasioni che capitano per ricominciare da capo e sperare
che ne sortiscano non solo arricchimento e chiarezza per tutti ma anche
qualche barlume di iniziativa che possa avviare una fase nuova. In ogni
caso meglio parlare che tacere, perché a stare zitti sono troppi e non
sempre per le migliori ragioni. Sono riflessioni che faccio non già per
trarre conclusioni, che, se fossero possibili, sarebbero la migliore
notizia dei tempi che viviamo, quanto per sottolineare la particolare
congiuntura che mi è capitata mentre su queste colonne si susseguivano le
opinioni su Bocca, Scalfari, la Calabria e il Mezzogiorno: l’avere tra le
mani la nuova edizione del libro del nostro Vito Teti, “La razza maledetta”
(Manifesto libri). L’attualità del testo, terminato nell’agosto 1992 e
pubblicato nel febbraio dell’anno successivo, e che raccoglie, analizza e
commenta i testi più significativi che sono alla base del pregiudizio
antimeridionale, è impressionante tanto da farci interrogare sul tempo che
scorre: ad esso rimandiamo vivamente i lettori che peraltro conoscono il
pensiero di Teti, graditissimo frequentatore di queste pagine, ma
soprattutto consigliamo la lettura di quel testo confrontandolo in
dissolvenza con la nuova prefazione, e prestando anche attenzione alla
bibliografia che fa storia a sé secondo la maniera degli studiosi di alta
scuola. In essa, la prefazione, si ritrovano i motivi profondi di questo
eterno discutere sul Mezzogiorno e sulla Calabria. Per di più in un
messaggio di Teti a chi scrive viene riassunta in maniera esemplare la
questione poi sviscerata nel saggio prima ricordato. Violando l’aspetto
privato della comunicazione lo riporto di seguito:
«Se della Calabria parlano male gli “altri”, ecco la “sindrome
dell’assediato”. Come si permettono a scrivere male di noi?
Se della Calabria non si parla, ecco la “sindrome del dimenticato”. Come
mai i grandi giornali non si occupano di noi?
Se se ne parla bene, ecco la sindrome dell’arrabbiato. Come mai non
vengono denunciati i mali della regione?
Se se ne parla male, ecco la sindrome del risentito, del retore della
calabresità. Come mai non si parla delle positività, dei boschi, delle
bellezze ecc.?
Insomma c’è questa dipendenza, attesa, paura dello sguardo esterno. Non si
riesce ad elaborare un cultura critica, autonoma, una soggettività sana.
Bisogna sempre scrivere per opporsi, difendersi, distinguere, dire “sì
però”, ma c’è anche altro ecc.».
Direi che Teti indichi nella normalità, che è un modo di essere e di
pensare ma per tutti noi anche un traguardo ancora lontano, la condizione
fondamentale per togliersi di dosso tutti gli stereotipi, altrui e propri,
che danno l’idea appunto di una straordinarietà, di un’eccezionalità e di
un “troppo” sempre in agguato e che rischiano di trasformarsi in
un’identità simile ad una prigione. Teti parla molto di identità e di
ricerca e retorica identitaria ma non se ne fa irretire. Rischierebbe di
finire nella trappola di chi ci ha dipinto e ci dipinge come una “razza
maledetta”. Ripercorre quasi un ventennio di storia italiana e racconta
come sia scomparsa la questione meridionale e sia nata, sostituendosi ad
essa, la questione settentrionale e come il germe di nuovi razzismi si sia
diffuso spesso con la complicità di ceti intellettuali e politici
tradizionalmente avveduti. Lo slogan “Roma ladrona”, sebbene il primo
mariuolo riconosciuto di Tangentopoli sia il milanese Mario Chiesa,
equivale in breve a meridionali ladroni, spreconi, camorristi,
‘ndranghetisti e mafiosi. L’egemonia, gramscianamente parlando, è tutta
nordica e padana, per il Mezzogiorno inizia, o ricomincia, la lunga marcia
verso l’oblio e la vergogna. Parlare di inferiorità meridionale e sentire
evocare Lombroso e Niceforo non irrita nemmeno, come a suo tempo accadde ai
meridionalisti Napoleone Colaianni, Giustino Fortunato, Gaetano
Salvemini…
Impietosamente Teti non mette tutti i buoni da una parte e tutti i cattivi
dall’altra perché le cose si sono evolute in modo complesso: la cultura può
aiutarci solo se siamo in grado di distinguere, separare, analizzare e
riformulare un contesto che dia spiegazioni e risposte. E’ impossibile in
questa sede dare conto dello smontaggio pezzo per pezzo della storia di
questi ultimi due decenni che fa Teti, ed anche dei rimandi articolati a
personaggi all’attenzione del dibattito di questi giorni: cito solo il
Bocca che in qualche modo legittima la Lega e il suo bisogno di inventarsi
un’identità di fatto inesistente, e il Bocca che aspramente svela le sue
verità su noi meridionali, che dispiacciono perché escono dalla penna di un
grande giornalista ma che sono ben più annacquate delle cose terribili che
i meridionali dicono tra di loro di se stessi.
Un napoletano nel film di Troisi doveva essere per forza un emigrante,
Teti va oltre e racconta il gioco perverso degli sguardi: «Ci presentavamo
(mi esprimo in questo modo con disagio e senza generalizzazione e retorica
identitaria di un “Noi” monolitico e indistinto da contrapporre a qualcuno)
agli altri esattamente come gli altri ci hanno voluto e ci vorrebbero. E
gli altri raccontavano di noi quello che già sapevano, quello che vogliono
sapere. Era il tempo di assumere un diverso atteggiamento rispetto al
passato e al presente e invece si continuò lungo la strada
dell’autocompiacimento e dell’autoassoluzione. Un senso del noi costruito
sulle immagini che arrivavano dall’esterno. Per contrastare certe immagini
stereotipe spesso si finisce col negare come frutto di ostilità e di
generalizzazione tutto quello che del Sud viene scritto».
Razza maledetta! Ma che non sta solo da una parte e che non è fatta più
solo di noi meridionali. Ci fu un tempo in cui la condanna toccò agli
italiani, tutti gli italiani, che emigravano in America. Oggi ci sono i
razzisti incolti e rozzi alla Borghezio che difendono il Nord
dall’infezione sudista ed extracomunitaria, ma ci sono anche i razzisti
meridionali che nelle campagne di Rosarno danno la caccia ai neri. Ci sono
i ragazzi e le ragazze della comunità Abele che da Torino insegnano la
legge della tolleranza, del rispetto e della solidarietà, e c’è il sindaco
di Riace che dà lezione di accoglienza. Così come non si possono
rimpiangere i Borbone e dimenticare il contributo dei meridionali al
Risorgimento, e viceversa.
Teti, e non solo, si aggrappa ai pochi segnali di speranza perché è da lì
che occorre ripartire. Ma il messaggio è chiaro. Mettiamo da parte
l’accetta dei giudizi sommari, rifuggiamo dall’approssimazione e dai luoghi
comuni, sfoderiamo piuttosto le armi dell’intelligenza e della cultura per
ricostruire correttamente le storie e la storia, evitando di cadere nelle
trappole del razzismo e del separatismo nelle loro versioni antiche e
recenti.
In questo mio pezzo, che non è una recensione, c’è tanta farina del nostro
collaboratore ma mi piace fare, spero, con essa e insieme a lui un buon
pane domenicale, calabrese e meridionale, avvolto in una bandiera italiana.
La normalità di cui si parlava sarà la nostra condizione quando riusciremo
a parlare agli uomini e alle donne del Nord come italiani del Mezzogiorno e
non ci sentiremo sotto esame anche perché l’esame intanto ce lo saremo
fatti da soli con inflessibile rigore e immensa voglia di guardare in
avanti senza attardarci eternamente sui limiti nostri e su quelli degli
altri ma impegnandoci piuttosto ad eliminarli, e ricordando sempre, a noi e
agli altri, che la razza non c’entra – la razza è un argomento solo per chi
vuole stravolgere le regole per giustificare la propria sete di dominio -,
ma che «le ragioni sono storiche e sociali». E queste ragioni spiegano
anche un carattere su cui si sono soffermati molto i razzisti
antimeridionali, quello della melanconia che «è stata utilizzata per
costruire la psicologia del meridionale, melanconia come forma di
autorappresentazione». Teti conclude il suo prezioso libro, che
consiglierei come testo nelle scuole calabresi ma anche in quelle della
Padania, con un finale misto di amaro e dolce: «Abbiamo incontrato la
melanconia di chi si chiude in se stesso, pensa che tutto è accaduto e si
limita a osservare le rovine esterne e interne, ma anche quella di chi
pensa di trovarsi di fronte ad un insostenibile stato delle cose che va
modificato e rovesciato, uno sguardo doloroso, ma non sterile, sulla
realtà. La melanconia che porta verso l’utopia, intesa come ricerca di
giustizia e di cambiamento». E aggiunge: «È chiaro, a questo punto, che il
problema, se è consentito esprimersi come quando un’intera generazione
pensava che cambiare fosse possibile, torna ad essere, come sempre, ma in
termini del tutto nuovi e da inventare, politico». Esattamente. Con un
piccolo codicillo: che a vent’anni da tali parole siamo ancora a questo
punto e che forse è giunto il tempo di guardare finalmente e di nuovo allo
stato di cose esistenti per superarlo.
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