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di SARA LORUSSO
QUELLO che in questi giorni l’assessore alla Sanità, Attilio Martorano, ha fatto capire, è che non ha intenzione di accettare che si giochi sulla pelle dei lavoratori, usando il rischio licenziamento e le decurtazione degli stipendi come arma di ricatto. Ha chiesto e promesso «chiarezza» nel gestire la complicata vertenza dell’istituto Don Uva – Casa divina provvidenza, l’ex ospedale psichiatrico, oggi centro di riabilitazione, che offre servizi delicati (come quelli per l’assistenza all’alzheimer), in regime di convenzione con il sistema sanitario regionale. E’ un ente privato, che fornisce prestazioni per il pubblico, pagate dal pubblico. Ma è anche pieno di debiti, quasi 300 milioni di euro stando alla stima fatta dai sindacati. A farne le spese, i lavoratori e i pazienti.
Ma nel frattempo, mentre ai tavoli aziendali si costruisce un difficile percorso per la salvezza della struttura (che chiede l’autonomia rispetto alle sedi pugliesi, decisamente con conti meno buoni), è un altro il pezzo di storia che tutti mormorano. E’ un ente privato, è vero, ma riceve soldi dal pubblico. E così suona irrituale, forse inopportuno, che nel cda figuri il figlio di un assessore regionale. Gianfranco Mancusi è il figlio di Agatino, vicepresidente della Regione, carica di governo dell’ente che paga, controlla e sostiene le prestazioni di quella struttura privata. Gianfranco è un giovane avvocato, potentino – lo racconta egli stesso nel profilo tracciato su un network per professionisti – da qualche tempo anche consigliere di amministrazione dell’istituto Don Uva di Potenza. Si crea così un “corto circuito”: in qualche modo controllore e controllato nella stessa famiglia. Legittimo. Forse, però, inopportuno.
La Casa divina provvidenza è un ente ecclesiastico, fondato nel 1922, che nel 1946 ottiene il riconoscimento della personalità giuridica della Congregazione delle suore “Ancelle della Divina Provvidenza”, con sede a Bisceglie. In ottant’anni, con l’obiettivo di dedicarsi «alla cura, all’assistenza, alla riabilitazione delle persone nelle quali è presente una compromissione delle facoltà intellettive superiori», l’ente ha raggiunto «una articolazione organizzativa» ampia. Foggia e Potenza, le altre sedi. A presiedere il cda, la madre superiora dell’ordine, gli altri membri sono indicati dagli ambienti vescovili. Solo due quelli in quota lucana: Gianfranco Mancusi tra questi.
La sede di Potenza, dunque, non è quella centrale. Il punto è che – hanno fatto notare i sindacati in modo unitario – la massa debitoria complessiva dell’ente si “spalma” anche sulla sede lucana, pur essendo stata generata altrove. L’effetto? I dipendenti del Don Uva di Potenza si sono visti annunciare solo una parte dello stipendio e hanno ingaggiato una battaglia – supportata dai sindacati, non solo dai confederali – per «l’autonomia» della struttura potentina.
Ieri mattina, durante un’assemblea dei lavoratori dell’ospedale don Uva, convocata da Cgil, Cisl e Uil, è stata ribadita la forte «preoccupazione» in cui vivono lavoratori e famiglie dei pazienti. «Non si può accettare – hanno riassunto in una nota i segretari confederali di categoria, Angelo Summa, Giovanni Sarli e Antonio Guglielmi – che i debiti delle strutture ospedaliere pugliesi si abbattano anche sull’ospedale Don Uva di Potenza». Ma la crisi finanziaria della Casa divina provvidenza, «appare irreversibile e strutturale».
Quello che chiedono alla Regione Basilicata è di affiancare la battaglia per l’autonomia, magari ipotizzando una gestione mista, oppure trovando un luogo alternativo in cui ospitare questi servizi. In attesa dell’incontro convocato da Martorano per venerdì prossimo, i lavoratori si alterneranno in un sit-in simbolico, davanti all’ingresso del Don Uva. «Siamo in pochi – spiegano – perché siamo responsabili e non ci allontaniamo dal posto di lavoro, abbandonando i pazienti, di cui ci prendiamo cura per devozione». Non mollano perché sono consapevoli di pagare un deficit di cui non hanno colpe.
Tanto più che la struttura di Potenza riceve l’accreditamento per le prestazioni offerte, secondo un tariffario più alto che in altre regioni, per un complessivo annuale di 22 milioni di euro: sono sufficienti a coprire spese di personale e di servizio.
Eppure, a sentire la Casa divina provvidenza, la situazione non è così serena: il privato chiede anche alla Regione Basilicata (analoga vertenza si sta svolgendo in Puglia) di adeguare e aumentare le tariffe, migliorare gli accreditamenti, fornire aiuti. Ad oggi, avevano scritto in una lettera ufficiale inviata a viale Verrastro da Bisceglie, non hanno incontrato «sensibilità».
Sara Lorusso

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