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Inizia domani al Tribunale di Palmi il processo ordinario contro i Pesce, la potentissima famiglia della ‘ndrangheta di Rosarno, falcidiata dagli arresti compiuti nell’aprile e nel novembre del 2010 con le operazioni All Inside 1 e 2 a seguito di un indagine coordinata dalla Dda di Reggio Calabria (Sostituti Procuratori Roberto Di Palma, Adriana Fimiani, Giuseppe Bontempo, Alessandra Cerreti e Stefano Musolino) diretti da Giuseppe Pignatone che consentì di aprire uno spaccato degli assetti criminali esistenti in Rosarno, nonchè degli equilibri e dei legami tra i soggetti appartenenti alle diverse famiglie, desunto proprio dalla dinamica degli eventi.
Indagini che delinearono i contorni di una delle più importanti cosche mafiose imperanti sul territorio di Rosarno, e con ramificazioni sul territorio nazionale: i «Pesce». L’attività, condotta dai Carabinieri, nacque dopo l’omicidio, perpetrato in data nell’ottobre del 2006, di Domenico Sabatino , soggetto organicamente inserito all’interno del sodalizio criminale facente capo alla cosca «Pesce».
In quest’ambito sono stati controllati gli esponenti della famiglia, alcuni dei quali detenuti, al fine di penetrare all’interno dell’ambiente criminale nel quale era inserito lo stesso Sabatino. Nello stesso contesto, le indagini hanno fornito altri spunti investigativi che hanno consentito di introdursi nelle dinamiche criminali, comprenderne le logiche e gli equilibri, ed ascoltare in diretta, per voce dei principali protagonisti, il contenuto delle relazioni e degli accordi, nonchè registrare le modalità di esecuzione di progetti criminosi alla base dell’associazione di tipo mafioso. Alle indagini partecipò anche la Polizia che era sulle tracce degli autori dell’omicidio di Domenico Ascone e del tentato omicidio di Francesco Ascone, avvenuti nell’agosto del 2007. Il quadro delineato intorno alla famiglia «Pesce» emerse dalle indagini svolte proprio nei confronti dei principali esponenti del sodalizio, che tratteggiano le linee guida dell’intera organizzazione.
76 furono le persone tratte in arresto e tra queste anche numerose donne, fra le quali una di esse Giuseppina Pesce, figlia di Salvatore, assunse un ruolo di primo piano nelle fasi investigative quando decise di saltare il fosso e di collaborare con i magistrati. Si deve alla sua collaborazione la seconda trance dell’inchiesta che prese il nome di «All Inside 2» e che portò in carcere anche due carabinieri e un agente di polizia penitenziaria.
I militari – Carmelo Luciano, di 46 anni, e Giuseppe Gaglioti di 32 anni – secondo l’accusa, avrebbero informato la cosca in merito a inchieste e blitz in cambio di regali e sconti per l’acquisto di automobili. Per loro scattò l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e concorso in corruzione aggravata i reati contestati. Per un terzo carabiniere indagato, in passato in servizio presso il Comando provinciale dell’Arma di Reggio Calabria, il Gip non ha concesso l’arresto, disposto invece per l’agente di polizia penitenziaria Eligio Auddino, in servizio nel penitenziario di Palmi. È accusato di aver agevolato lo scambio di messaggi fra il boss Salvatore Pesce ed i familiari e di aver favorito l’introduzione nel carcere di Palmi di beni e oggetti non consentiti dal regolamento. La Pesce dopo aver riempito centinaia di pagine di verbali e dopo aver usufruito dei benefici per i collaboratori di giustizia, ritrattò le sue dichiarazioni. Si era alla vigilia dell’udienza preliminare in corso di svolgimento presso il Gup di Reggio Calabria. Il legale della donna accusò i magistrati di averla quasi costretta a fare dichiarazioni contro i suoi familiari dietro la presunta pressione esercitata da questi ultimi di non fargli vedere i figli. Ovviamente i pm negarono tale atteggiamento sostenendo che era stata la donna a chiedere di voler collaborare spontaneamente. E poichè quelle dichiarazioni ritrattate non potevano essere utilizzate dai magistrati nei confronti di coloro che dopo il rinvio a giudizio sceglievano il rito ordinario, molti degli imputati lo scelsero. Solo in tredici, invece, hanno optato per l’abbreviato che, in caso di condanna, prevede una riduzione di un terzo della pena. Nel dibattimento sull’ordinario che sta per concludersi le condanne richieste dai pm Di Palma e Cerreti sono stati pesanti: per Vincenzo Pesce (classe 1959), 20 anni di carcere, stessa pena anche per Francesco Pesce (classe 1978), 14 anni per Domenico Arena, 12 anni ciascuno per Salvatore Consiglio, Rocco Giovinazzo e Francesco D’Agostino, 6 anni ciascuno per Lucio Aliberti ed Eligio Auddino, 6 anni anche per Rocco Carbone, 4 anni per Giovanni Romano. L’Ufficio di Procura ha richiesto la condanna anche per tre donne: 3 anni ciascuno sono stati invocati per Francesca Zungri e Lidia Arena, mentre ben otto per Elvira Mubarakshina, di nazionalità russa.
«Vedi che queste parole non devi scordarle: quel vecchio una volta li ha chiamati, a tutti al bosco. E ve lo ha detto mio padre, vi ha avvertito che quello che se ne è andato ha lasciato dignità, onestà e ammirazione di tutti e noi la dobbiamo portare a vanti.». Parole di Antonio Pesce che confida al figlio Francesco che aveva preso le redini del comando dopo l’arresto del genitore. Parole pronunciate durante un colloquio tra i due nel carcere di Secondigliano e che secondo i magistrati rappresenterebbero l’ammissione dell’appartenenza dei due soggetti alla ‘ndrangheta. Il vecchio citato da Antonio Pesce è il defunto «don Peppino Pesce» il capostipite della cosca morto nel 1992. Dal colloquio emergono, sempre secondi i magistrati antimafia ulteriori elementi probatori del ruolo esercitato dai Pesce a Rosrano e non solo. «Quello la sai cos’è per me quello (inc. insieme quello per me è , no lui per me, io per lui, no lui per me, io sono come Gesù Cristo per lui “mancu ai cani signori”, quello può avere tanta fiducia di me».

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